Chiara Daino
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[Archi di] Pietra


Una giovene fiera a paro a paro coi nobili poeti va cantando, et ha un suo stil bruto e raro.
Ven colei ch'ha 'l titol d'esser belva: nudrita di penser non dolce, sciolta favella, tal che nessun sapea 'n qual mondo fosse.

Giunge la funesta: colei che 'l mondo chiama ostile – e sempre un stil, ovunque fusse, tenne.
Ven colei ch'ha 'l titol d'esser folle: ch’ella amante terribile e maligna; disdegnosa e dolente si richiama. Del più dotto(r) figlia è chiara la crudel fama! Et anco è di malor: sì nuda e magra, tanto ritien del suo primo esser BILE, che par dolce ma punge agra.

E veggio ardir quella leggiadra fera, dispietata. Donna, fiera ch'è oggi ignudo spirto e felice sasso che 'l bel viso serra; fu già quella: alta colonna di malor. Colei che con sua tela tutto 'l mondo atterra, tornava con onor da la sua guerra, allegra, avendo vinto. Vedi il gran nemico? Com'arde in prima, e poi si rode, d'amor, di gelosia, d'invidia ardendo: in grembo a la nemica il capo pone.

E vidi il gran nemico stanco già di mirar, non sazio ancora – gli occhi dal suo bel muso non torcea, gli occhi, già accesi d'un celeste lume. Femina vinse chi pareami tanto robusto [del qual più d'altro mai l'alma – e non sol quella
ebbe piena]

Dogliosa e secca fu principio a SÌ lunghi martiri: memoria di sospiri. Più salvatica che i cervi, non curando speme né pene, allegra giostra, avendo vinto la sua guerra. Costei non è chi tanto o quanto stringa: crudelmente scorza e rebellante suole – da le 'nsegne d'Amore andar solinga. Non fan sì grande e sì terribil sòno Etna qualor da Encelado è più scossa, non freme così 'l mar quando s'adira. Non bollì mai Vulcan, Lipari od Ischia, Strongoli o Mongibello in tanta rabbia: non già quanto lei a disfar tutto, così presto. Sia 'l nome: Chiara e chiamasi Fame – et è morir secondo; ragion contra lei non ha loco e poco ama sé chi 'n tal gioco s'arrischia.

Tutte le sue Virtuti eran chiare mosse [a chiosa glossa]: gente di ferro e di dolore armata.
Schiera che del suo nome empie ogni libro; e come Fortuna va cangiando stile! Duro letto, dama sente. Ma benché obliqua, so quale lama sovra la mente: rugge, so com'ode saetta e come vola, e so com'or rubea per forza e come invola, instabili sue note, le mani armate – percote [E non v'è chi per lei difesa faccia quand’ella
è sola]

E son gli occhi: rapaci e tenaci, son come sete. So come nell'ossa il suo foco di pesce e ne le vene vive occulta piega, onde morte e palese incendio nasce.
[E l’ira cresce]

E so come in un punto si dilegua e non v’è speme di trovarla, e so in qual guisa, fra lunghi sospiri e brevi risa, voglia color cangiare spesso; stando dal cor l'alma divisa. Seguendo 'l foco ovunque fugge; sa arder da lunge ed agghiacciar da presso.
So come ogni ragione d’Amor discaccia, e so in quante maniere il cor distrugge. Insomma so che dama è alma ondivaga: rotto parlar con subito silenzio. E poi sparge mille volte il sangue: poco dolce molto amaro appaga, mal temprata con l'assenzio!
Donna involta in veste magra, con un furor qual io non so se mai: «co la mia lingua e co la forte penna» [rispose quella, che fu nel mondo
una]

Chiara: virtute accesa, quasi un scoglio. Et la boriosa impressa avea: sangue meschio, un singular suo proprio portamento, suo riso, suoi disdegni e sue parole. E poi un drappello di portamenti e di volgari strani: ch'ogni maschio pensier de l'alma tolle.

Pallida no, ma più che neve bianca che senza venti in un bel colle fiocchi, parea posar come persona stanca. Quasi un dolce dormir ne' suo' belli occhi, sendo lo corpo già da lei diviso, era quel che consumar chiaman gli sciocchi. A chi sa legger era condutta, a guisa d'un soave e chiaro lume – cui nutrimento a poco a poco manca, tenendo al fine il suo caro costume. Ecco colei che vien selvaggia, che di non esser prima par ch'ira aggia: ancor fa orror col suo dir strano e singolare. Poco era fuor de la comune strada, se, come dee, virtù nuda si stima. Era colei ch'Algòs sì leve afferra, et a Genova tolta, et a l'estremo cangiò per miglior patria, abito e stato [SOGNO D’INFERMI E FOLA
DI ROMANZI]

Ma pur di lei, che 'l cor di pensier m'empie, non potei coglier mai ramo né foglia, sì fur le sue radici audaci e purpuree le penne, né volle catene. Benché talor doler mi soglia [com'uom ch'è offeso] ecco quel che con questi occhi vidi: penitenzia e dolor dopo la pelle, la mia nemica Amor non strinse.

Tardi ingegni rintuzzati e sciocchi: qual greggia eran condutti; i cori e gli occhi fatti di smalto – la bella vincitrice, legarli vidi, e farne quello strazio che bastò ben a mille altre vendette! Tal si fe' quel giorno e disse:

«Io son colei che SÌ importuna, fera chiamata son da voi, sorda e cieca gente a cui si fa notte inanzi sera.Di gioventute e di bellezze altera, con la mia spada la qual punge e seca, e giugnendo quand'altri non m'aspetta, ho interrotti mille penser vani. Or a voi, quando il viver più diletta, drizzo il mio corso inanzi che Fortuna nel vostro amaro qualche dolce metta. Ben vi riconosco: so quando 'l mio dente vi morse e qui – conven più duro morso!».

Fiammeggiava a guisa d'un piropo: bella era, e ne l'età fiorita e fresca; quanto in più gioventute e 'n più bellezza, tanto par che sua forza accresca; nel cor femineo fu sì gran fermezza, che col bel viso e co l'armata coma fece temer chi per natura sprezza.
Io la vidi pien d'ira e di disdegno: ché già mai schermidor non fu sì accorto a schifar colpo, né nocchier sì presto a volger nave dagli scogli in porto, come uno schermo intrepido et onesto subito ricoverse quel bel viso: «la gran vendetta».
E 'n un momento – ammorba.

Io la vidi: scudo in man, arco e saette. E tal morti da lei, tal presi e vivi. Lei pensa, parla o scrive: «Per fictïon il ver non cresce, né scema», barbarica funesta. E ride.
[taccia 'l vulgo ignorante!]
Poi, col ciglio più torbido e più fosco, disse: «Piaga antiveduta assai men dole. Forse che 'ndarno mie parole spargo, ma non fate contra 'l vero al core un callo, come sete usi! Anzi: volgete gli occhi, mentre il vostro fallo, che sempre al vento si trastulla e di false opinïon si pasce, tremando scote. 'L tempo è breve, vostra voglia è lunga – e voglia in me ragion già mai non vinse!
Io v'annunzio che voi sete offesi da un grave e mortifero letargo, ché volan l'ore, e' giorni, e gli anni,
e' mesi; insieme, con brevissimo intervallo, tutti avemo a cercar altri paesi. Qui non si stima la penna ch'oso ardita in versi o 'n rima. Ond'io fora più chiara e di più grido: (reci) Diva son io, e tu se' morto ancora e sempre sarai».

Così parlava, e gli occhi avea al ciel fissi devotamente; poi mosse in silenzio quelle labbra ch'io vidi rosse lampeggiar. Dinanzi a tutto 'l mondo aperta e nuda: mente vaga, al fin sempre digiuna. Pallida in vista, orribile e superba che 'l lume di beltà vermiglio avea: dolci sdegni e dolci ire, le dolci paci ne' belli occhi. I' vidi il ghiaccio, e lì stesso la rosa, quasi in un punto il gran freddo e 'l gran caldo: dinanzi agli occhi un chiaro specchio.
E NON chiaro si vede ch’è chiuso cor profondo in suo secreto: un duro prandio, una terribil cena, come fu suo piacer, volse e rivolse.

Nulla temea e con dolce lingua, con fronte serena uscì del foco: ignuda in cruda grazia, a parlar secco – a faccia a faccia. E quel che, come un animal s'allaccia, co la lingua possente legò 'l sole: la mia nemica Amor non strinse. E co la lingua a sua voglia lo vinse.
Un gran folgór parea tutta di foco: che quando il miri più tanto più luce; e di che sangue qual campo s'impingue. Empié la dïalettica faretra ma breve e 'scura; e' la dichiara e stende. E alzò ponendo l'anima immortale: mostra la palma aperta e 'l pugno chiuso; e per fermar sua bella intenzïone nulla forza volse ad atto vile. La lunga vita e la sua larga vena pone in accordar le parti [che 'l furor litterato a guerra mena]

Falcon d'alto a sua preda volando e più dico: non difalca! Né pensier poria già mai seguir suo volo, non lingua o stile, tal che con gran paura la mirai. Di lei o di sua rabbia par che più d'altri invidia s'abbia, che per se stessa è levata a volo, uscendo for della comune gabbia. E riprende un più spedito volo – la reina di ch'io sopra dissi.

Passan nostre grandezze e nostre pompe, passan le signorie, passano i regni; né MAI si sposa né s'arresta o torna, finché v'ha ricondotti in poca polve [perché umana gloria ha
tante corna]

Io dissi di quella che ’l ferro e ’l foco affina: la penna da man destra e ’l ferro ignudo tèn dalla sinestra. Invece d’osse la vidi indurarse in petra aspra, che del mar infamia fosse.
Disperata scriva, donna viva e chiara una volta: fia Chiara [in eterna
brama].



Chiara Daino

[thanks to Petrarca]
ChiaraDaino.it © 2011

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SARXOPHONE
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[ARCHI DI] PIETRA

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