Chiara Daino
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18 Novembre 2010 20:45:05

Leggiamo, in una delle pagine centrali del libro di Chiara Daino, Virus 71 (Aìsara, 2010), stagliata in alto nel foglio, questa frase: “La vita è un pendolo che oscilla tra massacro e meraviglia”. Daino ci offre, con questo aforisma, una chiave soggettiva di lettura che fa, della dance macabre del suo libro, di questa Spoon River reale di maschi sterminati,  un atroce “spasimo” della scrittura. La poesia di Chiara è spasimo e spasmo, il suo linguaggio è spinoso e aggressivo, come la voce dark di Diamanda Galàs, orientato e disorientato da un continuo martellare ritmico, da un’ostinata tensione barocca della/nella parola. Una poesia scandalosa non tanto per i contenuti erotici esibiti, quasi a scherzo e parodia dell’eros, quanto per la sessualità selvaggia e percussiva della parola stessa. La sua lingua poetica assale con unghiate improvvise, e una vis comica che scardina certezze e canoni. L’uso ricorrente del corsivo, l’iperbole ostentata, la transe radicale del dettato, gli inserti in prosa tesi fino al parossismo, formano una poesia senza pause, acustica, agitata, guerriera, antilirica, che rifiuta le anestetiche bellezze formali e i deboli biografismi quotidiani ma esige la maniacale forsennatezza della sua maschera. In questa violenza di maschera è il suo “essere scrittura”.

La pagina di Chiara non è mai pagina bianca dove le parole si depositano come tracce rasserenate di un’emozione ma foglio da cui trapela la potenza dell’emozione con la sua voce guerriera, infetta, blasfema, stregante, antilirica e assetata d’estasi, il suo rancore anti-mondo, da invasata.

 

Quanti volumi nella mia vita: pieni vuoti persi vinsi

quanti ricoveri: ricetti e rigetti, vitto e sesso, flebo e gesso

quanti medici quanti musici quanti maschi mediocri

 

quanti ricordi resi al rum quanti casi clinici collezioni?

corpi contusi quanti lividi ematomi emocromi quanti

vizi quanti analisti arresi quanti organi quanti orgasmi?

 

Chiara scrive, in una recente intervista a Davide Nota per il portale online “La Gru”:

 

«Una retta è “parallela” solo in relazione ad un’altra retta. Tanto per incominciare. Si aggiunga che due rette parallele non si incontrano se ragionate nell’ottica della geometria Euclidea, geometria che – spiace comunicare anche questo – non è la sola geometria possibile [ricordare per credere – l'assioma di Riemann: “due rette qualsiasi di un piano hanno sempre almeno un punto in comune”. Per la serie: anche le rette parallele si incontrano, nel prima nel poi. Che sia in un punto o in un postribolo, per bastonarsi o per bere del whisky, poco importa. Le geometrie non euclidee esistono».

 

Queste affermazioni di poetica ribadiscono che l’armonia è solo un sogno antico e perverso: è inutile sognare sogni deboli ed è necessaria un’utopia percussiva, potente. Daino usa la lingua italiana sfruttandone le risorse retoriche e ritmiche, ostile a ogni piattezza espressiva, e spesso ostenta un linguaggio aulico e violento, come liquefatto in brevi colate laviche, sapendo che “La scrittura è fare festa con i fantasmi, perché la scrittura salva e condanna”. Chiara, in fondo, “trama” se stessa:

 

penelope che mi tramo ricami migliori mi devasto la notte nel tempo disfare bene l’ennesimo epico coccio di carne che replico cronici massacri di maschie miserie riferire cronache di coltelli pugnali ché poi lo sai: l’eternità non si ferma su di noi

 

Non ci sono tele da fare e da disfare. La tela è Daino stessa, la sua febbre metrica, il suo ardore scritturale incontenibile, che la rende, nel panorama astenico della poesia italiana, una creatura anomala. Ogni sua scrittura è un amalgama violento, un nodo inestricabile. Ogni scrittura autentica è tossica, fino ad essere letale. Non è coperta che salva o protegge, come si illudono certi poeti fiduciosi e ipocriti, ma un panno strappato con cui, al limite, coprirsi le ossa o esibire in atto di sfida come ultimo insulto da gettare al lettore-passante dalla propria cripta-antro. La miglior prospettiva da cui vedere la propria vita è, parafrasando Ernst Meister, la bara in cui siamo sotterrati.

 

Il libro si chiama Virus 71  perché – come spiega l’autrice –  più che un sorriso è una smorfia [napoletana! E 71 è l'Ommo 'e Merda!..

 

Ogni poesia della Daino ha un carattere epigrafico, è un’ingiuria, una “canzone disperata”. Proprio leggendo questi versi mi vengono in mente le rime del poeta Simone Serdini, detto il Saviozzo. Nasce a Siena nel 1360. Bandìto dalla sua città nel 1389, scrive poesie che chiama disperate, bibliche invettive contro l'insen­satezza del cosmo e degli uomini. Muore nel 1420 suicida, in carcere, a Toscanella. Nelle cuciture del manto che rivestiva il cadavere furono trovati questi versi:

«Maledetta la luce e lo splendore

 che prima mai s'aggiunse agli occhi mie

 e chi ne fu l'autore

co' denti'l teness'io come vorrei!»

 

Scrive Chiara:

«Cartolina da Genova - dopo anni – dieci – dita sulla tua faccia fantoccio

stringo falangi e schiaccio e spiumaccio dal tuo cranio rotto solo piuma

e gomma bianca lacera ancor la tua testa vuota e brucia ora si vendica»

 

“La scrittura di Chiara Daino, oltre i limiti della mera comunicazione, - scrive Mirko Servetti alla prefazione dell’inedito non-romanzo della Daino Noi siamo soli - sembra smarrire (su piani di realtà) il proprio destino. È come un sussulto all’interno del moto perpetuo innescato in un movimento centrifugo di perdita, accelerato, inesorabile, che si conclude poi con il tracollo definitivo. È il disastro della scrittura. Ma, al tempo stesso, la sua più viscerale emancipazione”. e centra il discorso musicale che sottende questa poesia: un moto perpetuo, una parola che si avvita su di sé, si autotrivella, tende a implodere esplodendo del suo stesso furore.

 

 

Un punto, un piccolo piccolo punto,

cerchi il motivo di vanto

la giovane che più giovane [ti senti?]

ti puoi illudere...

 

mi carico sulla pelle i tuoi anni

sono vecchia per i tuoi trucchi

canta canta forte tu canta pure

ho smesso da tempo di ascoltare

la campana rotta, la cassa capace

non cessa, ti ricorda a tutte le ore

che ci vuole classe – per morire

 

Ci vuole classe anche per citare Patrizia Vicinelli (perché non si può perché non si deve perché / io vi amo vi amo maledettamente tutti / e mi faccio schifo per questo desiderio d’amore / inappagato) e Emile Cioran (Talvolta si vorrebbe essere cannibali non tanto per il piacere di divorare il tale o il talaltro quanto per quello di vomitarlo). Il leitmotiv di questo libro-pamphlet  è una transe da “taranta” che utilizza il motivo del maschio da annientare come occasione del linguaggio di trasformarsi in bollettino bellico, sberleffo marziale, lotta inesausta contro i luoghi comuni

Daino scrive ancora, nella sua intervista a Daniele Nota:

 

Ogni lotta è «lotta di confine», dal singolo al sistema, dal morale al materico: è µ??e??? del margine. [...] Il corpo non è contenitore inerme di un contenuto [variabile e variato da soggetto a soggetto], il corpo è lo strumento percettivo primo: ci presentiamo al mondo e il mondo si presenta a noi – nell’accidente/incidente di corpi. Il corpo ci parla e il corpo parla per noi [al di là della fisiognomica, della genetica e di tutta la programmazione neurolinguistica, tutti abbiamo e siamo – anche – la nostra “storia clinica”]. Il corpo ci condiziona e – per quanto possiamo cercare di condizionarlo/cambiarlo/cancellarlo – il corpo pesa, influenza la nostra esistenza. Per quanto la voce possa trascendere o cercare di trascendere la carne: è sempre [e da sempre] una lotta di forze “uguali e contrarie”.  La voce di Leopardi sarebbe stata la stessa senza il corpo di Giacomo? Quali Metamorfosi Kafkiane senza le patologie di Franz? E Saffo? E l’elenco tende all’infinito...

Il dramma è il dramma della meccanica dei rapporti. Di tutti i rapporti: con il proprio sé e con l’altro da sé. Dramma della meccanica di azione e reazione, percezione e presa di posizione. La «desertificazione definitiva della Carne» che Ottonieri rileva in Virus 71 – significa proprio il vuoto, l’assenza di quella sintesi che l’umano può e deve: cercare. Conoscere il mondo anche attraverso il corpo necessita che il mondo intenda conoscere – anche – l’oltrecorpo. E quando e quante volte accade? Quale oltrecorpo possibile se i corpi stessi non sono più rispettati, ma solo – usati e abusati [e da noi stessi e dall’altro]?

 

In questo oltrecorpo di cui parla Chiara c’è un protagonista assoluto, un’armatura-corazza che ricorda la celata di Don Quijote, ben sigillato nella lettura dei suoi libri-incantesimi con cui reinterpreterà la realtà assediandola, popolandola dei deliri delle parole lette, parole incandescenti, più vive del reale:

 

E avanzo con un piccolo scudo per sopportare il peso: una pagina che è coperta, è sacra, è calda. Una pagina serra. Una pagina resuscita. La pagina è sorella, è stirpe simile, perché è una pagina sola. E non è solo una pagina: è la sola che mi suturi. E se perdo il filo mi basta cercare: è lì, placido e cullato nella nota. «Io» è chi cade ai piedi della pagina e insegue la linea: ne basta una – e mi prende la mano, mi prende per mano. «Io» è chi è sempre da sola, ma più sicura – se scrivo. E chiudo a chiave: lo scrigno e la gioia di ragno. 

Di foglio in foglio, hanno dato ogni spartito: organi e collane. Libri che si sono scritti da soli. E gli autori? Si sentono meno soli: succinti [sugli scaffali], sorretti [sotto i banchi di scuola], scanditi [in balli di braccia e bignami], ... Serafici e serafini sostano sulla scrivania, nelle teche si tengono saldi, nei tuoi palmi si aprono a corolla.

Ora siamo soli: tu mi leggi, io ti scrivo [sempre, anche se non mi rispondi]. Ti dedico tutte le mie parole: sai, io ho solo loro...

 

Marco Ercolani

[Kali: Daino, Laginja, Accerboni. Foto di Guglielmo Amore]

 

[E la Dama ringrazia Ercolani per l'attuffo che neanche lei saprebbe - nel suo. E coglie la precisa e perfetta *analisi* per ribadire quanto NON creda - in altro. Oltre l'atto artistico. Smiling like a Joker...]


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