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Moulin Rouge Estratto da Moulin Rouge
27 Ottobre 2011 13:28:22

I LIBRI NON SONO CONFORTI

di Marco Ercolani

Genova, 14 ottobre 2011, presentazione de

l’Eretista (di Chiara Daino, Sigismundus Editrice, 2011)

  OltreConfine Cafè

“Ho una matassa di voci che mi alberga e che mi alloggia”.

Partiamo da questa frase di Chiara.

Il libro è questa matassa di voci che sta al lettore districare. Il libro si chiama l’Eretista (Sigismundus, 2011).

Si definisce come “eretismo” uno stato di agitazione del cuore e della mente. Una sorta di fibrillazione dei tessuti, a cui talvolta partecipa anche la pelle, quando rabbrividisce. Questo è il titolo, il tema, la materia del libro. Titolo quanto mai opportuno e adeguato.

Il suo genere! Non pervenuto. Giallo? Noir? Una pagina precisa chiarirà l’enigma, ma non ve la svelo. Forse è proprio un noir, come è vero che Delitto e castigo è un romanzo poliziesco.

Di cosa parla l’Eretista? Alcuni dei temi: Milla e Nemi, Milla e Isaak, la rivista di cultura Gelb, la duchessa di Bretagna e la caccia all’ermellino, il patto col diavolo di Robert Johnson e la maledizione del 27, il formulario di Fraser e Omero, Monaldo Leopardi e Isa Bluette, il deserto di Tàlora e Tito Schipa Junior, il monologo di Pamela Morrison e il dondolìo dei pinguini. E infine una donna misteriosa, la rockstar Milla, la Beatrice infera che percorre tutto il libro.
L’Eretista è un libro a strati, godibile da un lettore che cerca una trama bizzarra ma anche e soprattutto da artisti e intellettuali che vi troveranno infinite citazioni ed eccitazioni, veri e propri tour de force virtuosistici di scrittura. È un libro che si impregna della lettura di altri libri. Ricordiamo che è nato in pochi mesi, da gennaio a settembre, ed è stato scritto e riscritto diverse volte.

I diversi capitoli sono intonati da io diversi, in luoghi diversi, in modi diversi (diari, carteggi, dialoghi, monologhi, inserti inattuali, da un commento a Omero al monologo dell’ermellino). Tutti concorrono a costruire una polifonia che complica la comprensione (il lettore ha molto da lavorare), ma invita a sprofondare nel tessuto della trama, e soprattutto a perdersi/ritrovarsi nei dettagli, nelle divagazioni.
È un libro erudito, ricchissimo di riferimenti musicali, filosofici, mitologici, letterari. Ma esiste un’erudizione esangue, senile, accademica, e un’erudizione eretistica, che rende la citazione uno stato di eccitazione permanente. È il caso de l’Eretista.

Daino compone un trattato di poetica per maschere. Ritratto di un autore e delle sue maschere. Autobiografia indiretta. Scrittura fosforescente, fitta di dialoghi e invettive. Libro grottesco? Ironico? Serissimo? Tutte e tre le cose, e molte altre. Un esempio di massimalismo barocco, di polifonia, ma non certo un esempio di “scrittura informe”, semmai il contrario.

«Nell’ora di frontiera, in questa striscia di Langa piemontese, una striscia di luce mi racconta del sole ciccione che, proprio adesso, sta mulinando un meraviglioso mezzogiorno. Nell’ora di frontiera, il sole ciccione piroetta alto in alto, in un altro spicchio di cielo. Non è bellissimo? Ho sempre trovato un capolavoro « il sole ciccione »! Una superstar: fiammeggia e tempesta i suoi vortici di grano, dardeggia maculato con la sua corona e non si cura di tutto l’orbitare che lo circonda.
C’è sempre uno scoglio indorato dal sole. E mi consola saperlo: è sempre un giorno nuovo, basta cambiare parallelo. Per questo vivo sempre un giorno nuovo, aspetto sempre un nuovo giorno. Per capriccio del mio ipotalamo rivoltoso, rifiuto ogni orologio circadiano: l’altalena che avvicenda le mie ore di veglia alle mie ore di nanna – è fuori ritmo.
Oh ciccione di un sole, non sei forse tu, abbastanza per me? Obeso di un sole, perché non sei in grado di essermi un « adeguato stimolo esterno »? Adiposo di un sole, perché non vuoi abitarmi come Zeitgeber, come donatore di tempo? Prendimi e lasciami! Non invadermi di continuo: sei peggio di un maschio arrapato e non mi concedi riposo. Tu, lardoso di un sole omertoso! Io lo so che avevi un gemello! L’astronomo rapallino, Pascàl del campo di Luppolo, mi ha svelato la verità: manca un fuoco. Al principio del tempo, eravate in due. Tu, pingue di un sole, avevi una pingue copia dall’altra parte dell’ellisse. Perché ne hai taciuto la scomparsa? La leggenda del « fuoco mancante » non è una leggenda. Hai insabbiato, rutilante ammasso di vampe scomposte, i raggi di tuo fratello. Non ti vergogni? Volevi essere da solo, oh sole? Tu e quel cornuto di Morfeo siete malati di protagonismo!
Monologo senza tregua...».

Una caratteristica del romanzo: essere una struttura porosa e onnivora, triturare la realtà dell’io e del mondo in un vortice sia linguistico sia di intreccio.

Antecedenti della Daino: difficile trovarli. Forse l’autrice ha dei precedenti ma non degli antecedenti. Mi sono imbattuto, io lettore, in qualcosa che mi ricorda Russia scompigliata di Remizov, Pietroburgo di Belji, i romanzi di Bernhard, le nevrosi di Gadda, il comico di Rabelais, forse anche certa letteratura sudamericana (Bolaño). Sicuramente il cinema di Tarantino e di Almodòvar.

Questo romanzo vive nel campo dell’iperbole barocca, nel regno inafferrabile della poesia. Daino è poeta (leggete l’autobiografico Virus 71 e la comica e potente Metalli Commedia per averne le prove), ma la sua prosa ci sorprende di più per la complicazione, la stratificazione, la fibrillazione dell’intreccio, e per il rigore serrato della scrittura e riscrittura, dal disegno complessivo della trama fino alle sarcastiche note finali. E il ritmo è sempre tenuto alto e forte, proprio per provocare, attirare, toccare il lettore, mettergli le mani nel sangue. Questo romanzo è un fiume limaccioso che trascina con sé sensazioni, impressioni, riflessioni, rigurgiti, invettive, che l’autrice ha vissuto mentre faceva il libro, lavorando quindi non in una fortezza d’avorio ma nel suo antro personale, nella grotta della sua mente, che assomiglia a un porticato aperto, dove entra ed esce di tutto.

I libri non sono strumenti di conforto. Sono mezzi per vivere di più. Daino vive dentro i libri. Scrive ininterrottamente. È pervasa. E ne l’Eretista c’è una fame di vita, di vivente, che nasce da un vuoto che solo la scrittura può colmare, e una voglia irrefrenabile, capricciosa, infantile, di coinvolgere il lettore in un gioco. In un immenso scherzo. Si ride, ne l’Eretista. Basta leggere le note, che non sono smisurate come in Metalli Commedia, ma sono sempre un esempio di virtuosistica, sferzante ironia. Eccone due fra le tante.

« Narciso e bugiardo [...] mi assorda l’eco »: l’autore, trattenutosi dallo scrivere Eco maiuscolo, intesse il mito di Narciso e di Eco. Narciso, innamorato della propria immagine, trascorreva le giornate a rimirarsi nello specchio delle acque. Peccato che avesse una relazione con la giovane Eco. Trascurata, Eco si consumava di giorno in giorno. Narciso, inseguendo la sua immagine si gettò nel fiume e schiattò. Eco, consunta, rimase solo una voce, diventando la prima anoressica dell’intero universo. Amen
« Pas »: acronimo di Parental Alienation Syndrome, sindrome di alienazione genitoriale, scatenata nei bambini da situazioni conflittuali di separazione o divorzio».

C’è un accordo profondo fra la trama sfuggente del libro – insieme romanzo noir, trattato di poetica, intrico di maschere, ritratto psichico dell’autrice – e la materia linguistica vorticosa, mai placata, della scrittura. Dovrei chiamarlo romanzo postmoderno, esaminare le analogie con altri strani romanzi come 2066 di Roberto Bolaño e Jest di David Foster Wallace, ma questo romanzo caleidoscopico sfugge alla “noia diffusa!” di questi modelli, assomiglia di più a un blocco esploso in frammenti, e ogni frammento restituisce la suggestione dell’insieme. Non si tratta di un difetto di composizione ma di una precisa volontà compositiva. Un romanzo unitario è oggi impensabile. Qui abbiamo una girandola di fondali diversi e spiazzanti, che formano un cocktail alcolico e beffardo, un giro di vortice sulle “montagne russe” della scrittura, inventano un orgasmo letterario che si realizza sia nella bizzarria dell’immaginazione che nella logica della composizione.
Daino ci presenta un romanzo ad enigma di cui, se è importante scoprire l’enigma, il plot, non è poi così determinante farlo (anche se una pagina lo rivela). In questo romanzo polifonico e frammentario, un’accelerazione febbrile percorre le frasi, un tempo velocissimo (l’azione si svolge in 27 giorni), che l’autore sì, controlla, ma solo in parte, perché vuole rendere quest’aura di fibrillazione che percorre le frasi. Per intenderci: come in un film di Tarantino. Ma anche come in un altro film, Sin city, la graphic novel potente e violenta di Robert Rodriguez, il cui protagonista ha la sagoma, cara a Chiara, di Bruce Willis. Ricordiamo Willis nel tarantiniano Pulp Fiction, un film dove il continuo intersecarsi dei piani temporali ha qualcosa in comune con l’Eretista. Dice Tarantino di sé: «Se non fossi diventato regista, sarei diventato un criminale». Frase che Chiara potrebbe condividere. Con la materia “cinema” il film ha in comune qualcosa di preciso: il nome della protagonista, Milla, trasparente allusione a Milla Jóvovich, protagonista de Il quinto elemento e di Resident Evil.

Questo romanzo è la percezione di un film esagerato, clamoroso, frastornante. Evidente la scrittura colorata, vocale, invettivante, mai pacificata: un vortice “in atto”, preciso opposto di una scrittura lineare e riflessiva. Ecco l’aggettivo lineare va eliminato dal vocabolario della Daino. Lo sostituiamo con complesso? Sì, ma direi anche multiverso opposto a universo.
La logica è solo un modo per essere ignoranti in modo abissale”, dice Terry Prachett, autore di fantasy umoristici amati dalla Daino, dove un Mondo-Disco cammina in groppa a quattro elefanti che si reggono sul corpo della Grande Tartaruga. Che da quelle parti ci siano le remote radici di questo romanzo multiverso, nel senso di universo barocco, plurale?

Ogni romanzo si costruisce su una retorica. La retorica della Daino è l’iperbole. Tutto è sempre sopra le righe. Non tende al silenzio. Noia e lamento sono messi al bando. Esiste, nel libro, una follia ipomaniacale sotterranea. Un atto di accusa contro il mondo, l’atto violento di accusa di un bambino frainteso contro un mondo adulto stupido, limitante, violento.
Ma esiste anche un discorso teatrale della parola. Scaturisce la vocazione al palcoscenico, all’esibizione, di una scrittura ostentata, veemente, di originale intelligenza.
Leggete questo libro, leggetelo ma non cercate di capirlo tutto subito, di arrendervi alla logica di un unico genere, perché sarete spiazzate, circuìti, sbeffeggiati, cercate di farvi afferrare dalla sua non-linearità romanzesca. Come lettori, dovrete lavorare. Il libro è una lama aperta, che vi invita ad avvicinarvi, che vuole ferirvi. Non è innocuo, lo sappiamo: basta conoscere l’autrice. Ma ne sarete ripagati.

«Tu sei sempre stato più bravo di me anche in questo e, da quando mi hai lasciata, mi hai lasciato un buco così profondo nel centro del petto, che non riesco più a colmarlo. Lo vedi che si ritorna sempre al buco? Lo studente che ha due ore di buco all’università, ne approfitta per trovare un nuovo arpeggio; il maschio tradito usa le donne come tappabuco per le sue serate; le mani bucate conducono alla rovina; lo scrittore si dispera per un buco nel romanzo; un attore deve bucare lo schermo...
Per quanto mi riguarda, ho fatto un altro buco nella cintura, sono sempre più magra, ma non conta, non ora che uso la cintura come un laccio emostatico per centrare una stramaledetta vena. Questo è il buco che ho scelto io, ma uno sciamano mi ha detto che il 5 aprile del 1994, un angelo triste si farà un buco in testa con una pistola. Per fortuna non ci sarò più, non potrei sopportare la vista di un altro buco, un buco nero.
Sono già piena di buchi: nelle braccia, nelle mani, tra le dita dei piedi e sotto le unghie. Non voglio altri buchi, buchi nell’acqua e buchi nei vetri, buchi nei vestiti, per i mozziconi di sigaretta che mi spengo addosso quando sono in acido.
Ho anche un buco nello stomaco e, Amore mio, vorrei solo fare un buco nella sabbia, come quando ero una bimba e scavavo una buca grande grande, pensando di raggiungere l’altra parte del mondo. Ora che sono cresciuta, so che i buchi sono pericolosi: i buchi per cercare il petrolio scatenano guerre infinite, il buco nell’ozono, prima o poi, inghiottirà ogni forma di vita e il silenzio che mi hai hai lasciato in eredità, è un buco che non so più come riempire».

Musicalmente dovesse venirmi in mente un autore classico, che la Daino ama molto, citerei un genio dell’ironia, Gioacchino Rossini, e il quartetto da La Cenerentola: “Questo è un nodo rintrecciato. Questo è un nodo avviluppato”. I protagonisti del quartetto, immersi nella trama, cantano e sprofondano nella demenza di non capire. E il virtuosismo acrobatico di Daino è degno del più puro belcantismo. Ma Chiara ama sonorità Rock e Heavy Metal, che sostanziano la pulsazione forsennata de l’Eretista, come le straziate polifonie di Stratos e di Tran Quang Hai, il maestro vietnamita di Stratos.

Daino è Maschera nella sua arte (uso il maiuscolo, Chiara mi capirà). Ci sono maschere che è semplice indossare e maschere che non si separano dalla pelle. Ecco, Daino è Maschera tra l’uno e l’altro modo. Non maschera semplice, che ci si toglie tranquillamente, e neppure maschera che aderisce tanto alla pelle da distruggere il corpo. È maschera relativa ma assoluta, “maschera sospesa”, nel senso che a toglierla ci si scorticano le dita e sanguinano. Chiara è sempre scorticata. Non vi fate beffare dalla sua maschera-per-tutti, aggressiva e Heavy Metal, buona à tout faire. Affondate lo sguardo nella sua scrittura che è ancora Schiaffo al gusto del pubblico, come in qualche appassionata serata futurista.

Spero, con queste parole, di avervi invitato a leggere un libro urticante e preciso, pubblicato con coraggio da Sigismundus Editrice, la cui veste grafica, curata ossessivamente da Chiara, è elegante e luminosa. Non vi conforterà, questo libro, ma vi sveglierà. Ce n’è bisogno. Come dicevo: di libri belli ne troviamo tanti, ma i libri necessari afferriamoli quando capita (raramente) l’occasione.

Finirei con una citazione della Daino tratta da un altro libro in prosa, Siamo soli [morirò a Parigi], che ho avuto la fortuna di leggere inedito, dove Chiara ci dice senza ambiguità cosa pensa realmente della scrittura:

«E avanzo con un piccolo scudo per sopportare il peso: una pagina che è coperta, è sacra, è calda. Una pagina serra. Una pagina resuscita. La pagina è sorella, è stirpe simile, perché è una pagina sola. E non è solo una pagina: è la sola che mi suturi... Ora siamo soli: tu mi leggi, io ti scrivo [sempre, anche se non mi rispondi]. Ti dedico tutte le mie parole: sai, io ho solo loro...»,

Qui è lo stile della Daino. Ma “stile”, come scrivevo nel mio Il ritardo della caduta, è «stilus», coltello.
Il fatto è semplice: questo autore è un raro animale della scrittura. Cercate di leggerlo: ne sarete arricchiti. Oggi le anime liriche sono tante, ma i veri, barbari poeti della prosa, pochi.
Un vero autore vive come un “sospeso dalla vita”. Gli artisti veri sono solo strumenti da cui passa l’energia della metamorfosi e della sovversione.
Lo scrittore Daino sostiene e sosterrà ancora la vita biologica di Chiara Daino. Cioè il “fantasma” della scrittura le infonderà vita. E spero per molto, molto tempo. Il tempo, per lei, di essere felice, come in questo giorno di festa. Il tempo, per noi, di godere altri suoi libri, eccellenti come questo, e chissà migliori di questo. Vi ricorderò che Chiara ha 30 anni, e invito gli scrittori presenti, me compreso, a ricordare cosa scrivevano nei loro 30 anni. Senza mai dimenticare che l’Allegria di Ungaretti fu scritta da un giovane di 28 anni. L’adultità non è necessariamente maturità, a volte è solo avvizzimento e vecchiaia.
“Ognuno canta con la sua voce, indossa la sua maschera, cammina con il suo passo. Ed è osando il proprio tono e non un altro, preso a prestito dalle tradizioni della letteratura, che la scrittura smette di essere inoffensiva e diventa energia pulsante e trasgressiva, diagramma spezzato di una febbre”.
Con queste parole, che scrissi nel 1989 come apocrifo di Ingeborg Bachmann, e che sono tratte dal mio libro Vite dettate, vorrei concludere questo mio piccolo homenaje a Chiara Daino. Il presente si riverbera nel passato, il passato nel presente. Così è (se vi pare). Un applauso a questo libro tragico e spassoso, alla sua autrice e anche al coraggioso editore. Chiudo con le parole di Chiara, che solo lei potrebbe avere scritto:

«Io sto morendo, ma quella puttana di Emma Bovary vivrà in eterno».


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