Chiara Daino
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2023, Poemetto Grafico
DIÖSTERIA DIÖSTERIA
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2023, Stornelli
5 MARZO IL 5 MARZO IL "RIGORE" DI PASOLINI
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2022, Poemetto Grafico
CARO COLLEGA - Storielle facili per colleghi storici CARO COLLEGA - STORIELLE FACILI PER COLLEGHI STORICI
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2021, Satira sociale
VIRUS 71 VIRUS 71
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2019, Romanzo
Metalli Commedia METALLI COMMEDIA
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2019, Poema Borchiato
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L'Arte del Ragno L'ARTE DEL RAGNO
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2015, Versi
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2010, Versi
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18 Giugno 2018 18 Giugno 2018 - Cotonfioc Festival 2018

Poeta non è – come disse un poeta di un sommo poeta – un elucubrato participio passato. Che male c’è nel credere che io sia veramente guarito? Vorrei solo che tu guarissi, anima. Ecco tutto. Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine. Ed è questo chi soffre ed è questo che s’offre al pubblico. Ed è questo che offriamo all’ascolto – che chiediamo attento e benevolo perché poeta non è un elucubrato participio passato. E non c’è più ragione, e non c’è più follia, e non c’è più presente e non c’è più passato. Non so dare un motivo al mio pianto. Anche oggi il cielo ha pianto tutte le sue lacrime guardando gli uomini distruggersi la vita. A poco a poco mentre sotto la tenda a spicchi colorati di un circo Un pagliaccio ha smesso di ridere Incontrando gli occhi tristi di una bimba disperata, una bimba che nessuno ha mai amata. Non so dare un motivo alla mia lacrima. Papà, guardavo il sole ed il sole cadeva, poi guardavo la luna e cadeva anche lei. Il sole mi ha parlato di dove va di notte, e ancora di altre cose che adesso non ricordo. Ricorderai, mi ha detto, e dirai a papà. La luna invece no, restando zitta zitta mi è saltata qui in grembo come tremando tutta, facendomi il solletico. Poi è saltata via rotolando lontano, e intanto ripeteva “Non dire niente a mamma a mamma a mamma a mamma…”. Papà, che devo fare? Lo so che al mondo esiste tanta gente che ha sempre detto quel che devo fare ma poi di me non gliene importa niente se sono solo e non so mai con chi parlare e giro a vuoto non sapendo dove andare. Mi dicono: «TU DEVI stare buono… NON devi più fumare sigarette» ma intanto se la godono in gran tòno. Non gliene frega niente se ho il morale fatto a fette perché nessuno mi dà mai quel che promette. Che brava gente c’è! Pensare che non ho esigenze strane, ma ho solo una gran voglia di fare, per questo io vi canto una canzone, sperando che mi stiate ad ascoltare. E non venite a dirmi che sono cazzate perché sono bombe atomiche disinnescate dentro di me. Le cose che vorrei che tutti quanti sapessero della mia vita dura, che faccio per tirar avanti il carro, tanto ch’a volte son preso da una gran paura se chi mi parla fa capir che c’ha premura; chissà perché? Vorrei che mi venissero a trovare i miei fratelli – Cesare e Roberto e insieme tante storie raccontare: storie di sbandi… E quella volte che un “ESPERTO” disse: i vostri problemi li risolvo – certo! E poi fece: “ciao!” E salutare è salutare: malati gravi si è per definizione. φ Che male c’è nel credere che io sia veramente guarito? Vorrei solo che tu guarissi, anima. Ecco tutto. Ricordi? Era Settembre. Piangevano tutti. E io me ne stavo lì, a contemplare il cortile con uno sguardo pallido e assorto senza progetti per l’avvenire. Era una giornata nuvolosa, ma le nubi non turbavano quell’allegro chiacchierare: sai da grande, l’astronauta, sai da grande, l’astronave… Grandi progetti per il futuro, per un bambino di sei anni: che stupido orgoglio, diventare grandi. Volevo rimanere così così per l’eternità fare l’astronauta? Ma… E la maestra, in mezzo al frastuono, saluti di qua, saluti di là “bambini in classe, è tempo, al lavoro! Diventate grandi, orsù, si và”. Ma QUALI progetti, ma QUALI opinioni? Lasciatemi stare. In cortile. Da solo. Io non piangevo. Voi – tutti campioni? Ma io voglio altro, voglio il volo. Volare su in alto col pensiero. Questo mi basta. Mi basta davvero. “Lasciatemi stare. Ancora un momento! credete davvero, credete davvero credete all’astronave! Io credo al Tempo! Ho solo sei anni, lasciatemi stare. Voglio volare, volare volare. PIANGETE-GRIDATE! Per voi è la fine! Starò qui da solo, da solo in cortile. Io vado in alto, io salgo, io volo! Guardarono tutti, la maestra per prima. Era tardi. Diventai grande quella prima mattina. “Viva in bocca ad un morto dolce dolce pastiglia. Uno più tre per tre, fanno un bel parapiglia. Sia ragione sia torto, vento o neve, sai te! Papà, cosa vuol dire?” “Tu l’hai sognato, piccola. Rime e figure passano di nonna in mamma in figlia, da bocca a orecchio scendono per cascatelle e chiuse fino a stagni pacati. Stan lì in fondo per anni, se non ti tuffi o scivoli non te ne giunge niente, solo di quando in quando qualche bolla risale e chi è attento la sente. Pazienta, capirai…” “Quando sarò più grande?” “… quando sarai più grande.” Per tanto tempo i tuoi occhi Mi hanno guardato senza vedermi, per tanto tempo. Ora che è infranto il sipario che ci separava, ora che la mia follia come un fuoco selvaggio ha sciolto il gelo che ci aveva ibernati dimmi cosa vedi. Io non posso saperlo io non riesco a sapérlo. Sei tu che devi dirmelo. Ma se ancora temi di ferirmi a morte, allora usa la tua arma, usa il tuo silenzio che è timore e speranza insieme – per me. Io aspetterò. Ogni giorno che passerà cercherò di riconoscermi in te, di vedermi come in uno specchio, fino a raggiungere da sola, con una forza e una fiducia riconquistate, la verità. Tu dici che la verità non esiste. E allora, io ti prego, per me, per la mia vita futura, devi inventarla. è forse l’unico dono a cui io credo di avere diritto. Occultare un lamento dare vita a un incanto. Parole senza senso, che mi fanno casino nel cervello tanto tanto. Ho trovato a stento la rima con incanto e è finito tutto in un casino. Proprio così, Professore: un casino. Al punto in cui stavo per spaziare, per prendere il volo in un cielo a dir poco inquinato, mi sono accorto di non saper volare di non voler volare, di non aver voglia di parlare di incanti; mi sono accorto di non saper volare voli che sono acrobatici, di avere da dire cose serie, di voler fare un discorso mio. E il discorso, Professore, è questo: che i casini nelle mie poesie, le parole come m-e-r-d-a p-ut-t-t-an-a (insomma, andatevele a cercare!) saltano fuori proprio quando perdo il filo del discorso. Quando rischio di sollevarmi da terra, dimenticando ciò che intendevo dire. Allora: p-u-t-t-a-n-a, c-a-s-i-n-o, m-e-r-d-a, c-a-z-z-o. Con una parola, una sola di queste, rimetto i piedi a terra, riesco a proseguire il discorso e, qualche volta, portarlo a termine. E tutto questo perché questa è la mia (sola) maniera di riuscire a dire le cose. Di portare avanti un discorso. Le scritture, le mie, naturalmente nate postume, celano la forma del riposo, del denso incantamento. Versi da gogna nati per non restare, per morire embrioni innalzati dal mio ostinato orgoglio. Leggimi di notte come io scrivo, fallo pietosamente, con indulgenza, perché, lo sai, sono nato sfinito. Diritta non è la mia strada, confuse le orme. Sulla selce, calciato, è il mio volto incancrenito. Con le sue parole che non prendono l’osso del cuore, parole rarefatte che non schiudono le labbra altrui in dolci fonemi. Ma io sono in un mondo migliore, sono la foce e la sorgente: sono Lorenzo. Sono Lorenzo e sono Diego, Enza Elisa e Edoardo; Ottavio Barbara e Guerrino; Armanno e Francesco. Chiedi in giro. Chiedi in giro se ha spazio questa poesia. Poi ucciditi. Prima però canta per tutti: Se vedete un cane randagio non fategli una carezza perché felicemente scondinzolando e grato non cesserà di seguirvi con amore fedele. Ma prima o poi ti verrà a noia e per mandarlo via lo prenderete a calci. Se non lo accarezzate con amore, lasciatelo, ignoratelo piuttosto perché vi assicuro che dopo quei calci avrà più paura delle vostre carezze che della sua solitudine.
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