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Il muro dove volano gli uccelli (L`Arcolaio, 2013)

Henri Michaux

Il nervoso e ritmico Michaux spinge “appena” la sua scrittura e la sua pittura in un leggero “vacillare” che risponde alla sua concezione dell’uomo: “uomo” che ha deposto qualsiasi incertezza per preservare il proprio inattingibile espace du dedans dal generale dissolvimento e dall’aggressione del mondo. E lo fa attingendo energie da due universi estremi, separati solo all’apparenza: quello favoloso e astratto – “fuori di sé” – che le sue parole hanno tentato di descrivere con ibride e disinvolte scritture, e quello reale e arcaico – “dentro di sé” – portato alla luce dalla vertigine dei segni. D’altronde, lo stesso Michaux scriveva, cosciente dell’alterità della sua opera: «Dal momento in cui prendo in mano matita o pennello, i volti si presentano selvaggiamente sul foglio, uno dopo l’altro – dieci, quindici, venti. Sono miei, tutti questi volti? O di altri? Da quale profondità arrivano? Non saranno forse semplicemente la coscienza riflessa della mia testa, le smorfie di un secondo viso?».


Alberto Giacometti

Alberto Giacometti ci ha lasciato conversazioni, taccuini, prose, scritture: un monologo ininterrotto che ha accompagnato, come un basso continuo, la sua vita d’artista anche durante l’esecuzione delle sue opere; dipingendo i ritratti di James Lord o Isaku Yanahiara o Eli Lotar, continuava a discorrere con i suoi modelli. Aveva bisogno, Giacometti, di parlare molto, per convincere se stesso, per difendere la verità delle sue ossessioni. Ossessioni non compiacenti con le regole dominanti della percezione visiva ma capaci di rinnovarle. Uno scrittore-pittore contemporaneo di Giacometti, il belga Henri Michaux, afferma che “ogni arte è deforme”, di quella particolare deformità che impone a un artista di vedere le cose in quel modo e in nessun altro, “percorrendosi” interamente.

Le figure giacomettiane appaiono come esseri scarnificati, carbonizzati, erosi, colti nell’imminenza di una catastrofe. La loro tragicità non è solo una confessione di disperazione ma anche una condizione umana che sconfina in una vivace, assurda letizia: vivere nel “mutamento continuo della vita”, nella certezza che ogni giorno si veda “più riccamente” e il mondo diventi “più straordinario e più interessante”. Pochi artisti come Giacometti ci hanno mostrato come la coscienza del dissolvimento e della morte non appartenga allo sconforto di un io dominatore che sente mancare i suoi possedimenti ma all’euforia di un io nomade che si percorre e si esplora. Statue a brandelli e a frammenti, disegni semicancellati, ritratti quasi anneriti, raccontano questo lavoro ossessivo, tra vita e morte, che inevitabilmente corrode e nasconde la cosa rappresentata. Ogni sua scultura, secondo Yves Bonnefoy, è la “testimonianza spaventata di un’apparizione”. O, come suggerisce Jean Genet, un “idolo” che ci guida verso l’aldilà, consentendoci di accedere serenamente al regno dei morti.

Giacometti dice di voler capire e riprodurre la realtà, almeno così continua a ripetere ai suoi sempre più numerosi intervistatori. Ma mente. Sa bene qual è il suo compito: avvicinarsi a una copia quasi perfetta, sapendo che perfetta non lo sarà mai, perché, nel momento cui il progetto si realizzasse, si arresterebbe il flusso della vita, fissato in qualche disegno inerte, in qualche statua morta. La realtà è il brulichio, l’erosione, i buchi, i pori che si aprono nelle cose e nei volti come nella pittura, nel foglio, nel gesso. L’artista mente consapevolmente. Il suo lavoro è un divenire come è in divenire lui stesso: é dissodare la figura dell’uomo, scorticarla, rimpicciolirla, mummificarla. Ma nessuna scultura di Giacometti è un fossile o un reperto: è la maschera, tragica e semplice, che lo sguardo umano, giunto al fondo di sé, arriva a vedere come “osso” dell’anima; la penultima maschera, la più vicina alla sua essenza, la statuina filiforme da riporre in una scatola di fiammiferi. Ma dentro quella scatola ciò che, allo sguardo superficiale, non sembra che una minuscola marionetta straziata, è la raffigurazione più fedele che un artista contemporaneo ci dà della condizione naturalmente tragica dell’esistenza. I volti di Giacometti sembrano sempre espiare qualcosa di inspiegabile. Sono crani appena coperti dalle pelle, ossa animate da sguardi vivi. Ad esistere è lo sguardo proteso all’infinito che ferma il volto nella sua concreta visibilità. Attratta dalla vertigine della distanza, respinta in una desolata intangibilità, la figura esiste nel vuoto che la contiene. Interagisce con l’aria. La sua prosciugata piccolezza innesca una reazione esplosiva con l’immensità che la circonda. Esiste nel momento in cui viene cancellata: fa sua la disperazione di sparire; vibra nell’intreccio con gli strati dell’aria, tessendo una trama che non si esaurisce nel legno o nel bronzo in cui è composta ma che dura, come eco di un suono, nella vastità minacciosa del vuoto.

All`inizio, nell’arte, è sempre un grido a dire di sé. El Greco dipinge nel buio, affidandosi alla luce del suo occhio. Il pittore forma illusioni. È espressionista. Ha bisogno un occhio interno che veda e stravolga. Nelle nuvole e nelle valanghe di Turner l`accenno a una natura sublime è più vicino alle descrizioni lucreziane che non a posteriori invenzioni di armonia e di equilibrio. La natura è un insieme di sistemi aperti e complessi, non chiusi nell`armonia delle sfere celesti. Il “cielo stellato sopra di noi” evoca “la legge interna dentro di noi” non nella rispondenza armoniosa della parola kantiana ma nell`accordo discontinuo che lega macrocosmo e microcosmo. Si può parlare di espressionismo e di formalismo non come di due correnti estetiche ma come del sistema arterioso e venoso della stessa circolazione, quella circolazione che porterà Giacometti ad inseguire un realismo che, per essere “autentico”, si fa “sur-realtà” dello sguardo, mai decorativa bellezza di statici incubi. Non è soltanto un caso se Giacometti è stato compagno eretico e non ortodosso del surrealismo bretoniano.


Nicolas de Staël

Il concetto di “eresia” (airesis, scelta) è strettamente legato a quello di “scelta” (dùnaton, possibilità). Solo dove c’è l’una può crescere anche l’altra. La “scelta-possibilità” è fondamentale per definire il concetto di libertà e di libero arbitrio. L’eresia – scrive Voltaire – è “frutto di un po’ di scienza e un po’ d’ozio” perché il “sognare” è caratteristica dell’otium e lo “scegliere” contraddistingue il lavoro scientifico. E se l’eresia fosse proprio una scelta, sì, ma all’interno di un sogno? in altre parole, una possibile definizione di utopia?
Scrive il pittore: «Probabilmente mi preme affermare che ci sono due cose valide in arte: la folgorazione dell’autorità e la folgorazione dell’esitazione». Il termine “folgorazione” è comune alle due definizioni. Da un lato, è necessario tenere viva l’attenzione alla forma autorevole, al rigore dell’opera, dall’altro occorre concedersi a un’inafferrabilità dei significati, a un’esitazione del senso, a una ferita sempre beante, non colmabile dalla pienezza dell’atto artistico. Ma rigore ed esitazione, uno strettamente vincolato all’altro, sono l’esperienza, appunto, della folgorazione.
Ci sono modi diversi per esprimerla. Il più impulsivo e intransigente è il suicidio. Nicolas de Staël, a 41 anni, il 16 marzo del 1955, si uccide non per qualche dolore personale o particolare senso di colpa. Non si sente più in grado di rispondere alla “chiamata” della sua opera (hazard terribile che reclamava da lui un’energia creativa di cui si sentiva svuotato) e quindi si getta nel vuoto, dalla finestra del suo atelier di Antibes. Inadeguato all’opera assoluta che vorrebbe realizzare, ne testimonia l’insufficienza con l’atto definitivo: il sigillo del suicidio. È questa la sua folgorazione: un repentino movimento di caduta simultaneo all’atto megalomanico del volo.


Antonello da Messina, Ecce homo, 1474

Incorniciato nel piccolo rettangolo del quadro, il viso ovale del Cristo ha la tradizionale corona di spine sul capo, il collo è circondato da una corda che evoca il cappio dei prigionieri – condannati, schiavi, animali. L’arco delle labbra si abbassa in una sorta di smorfia di indifferenza verso la fine imminente. Questo Cristo non è né umiliato né deriso, ma testimone di un dolore puro e indifferenziato la cui maschera si affaccia da una finestra e ci guarda senza sapere di essere guardato. Gli occhi, siderali, sono immuni da qualsiasi fisicità terrena. Lo sguardo nasce dall’abisso di un dolore estraneo a qualsiasi ragione e legge: è lo sguardo di chi si percepisce vittima di una Volontà ineluttabile.
Opposto alla rappresentazione di un Redentore troppo terreno o troppo spirituale, il Cristo di Antonello è remoto, tragico. Il reclinarsi del capo, l’arco della bocca, il viso sbiancato e livido e senza tracce di sangue, suggeriscono una Triste Indifferenza senza remissione.
Questo Cristo non si congeda mai da noi: cappio e occhi, continuano a legarci a uno strazio non umano. Non ci chiede nulla, e non risponde a nessuna domanda. «La lezione maggiore dell’infinito è / smettere d’essere, a volte, infinito». (Roberto Juarroz).



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