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Sulle tracce dei cardellini – una flanerie (Joker, 2009)
Giorno dei Santi, 1 novembre 2006.
Una giovane aquila reale plana nell’orto di un’amica, nell’entroterra di Uscio, campagna in miniatura alle spalle di Recco. L’aquila rimane lì, a guardarsi in giro, con i suoi occhi ipnotici e un’aria regale e tranquilla, di una grazia ammaliante. Ha mangiato un gallo e due galline e non riesce più a spiccare il volo. La chiudono dentro una gabbia enorme, non si ribella, si lascia fotografare, riprendere con la telecamera (il servizio finisce in televisione). Una fotografa l’ha addirittura spostata per ritrarla da varie angolature. Lei, impassibile, lascia fare. Poi, ad un tratto, si mette a cantare: un suono dolcissimo e squillante che ha impressionato tutti. Da un rapace simile ci si aspettava per lo meno un suono roco o uno strillo sgradevole. Possibile si sia addomesticata così presto? Forse non si è accorta di trovarsi sulla terra, e per di più, chiusa in gabbia. Forse è in trance, forse sogna. A pochi metri dalla sua gabbia, quella dei canarini è in subbuglio, un insopportabile schiamazzo. Al tramonto, la porta della gabbia viene aperta e l’aquila viene rimessa in libertà. E’ subito in compagnia di un’altra aquila più grande – forse la madre – che da un pezzo stava ruotando ad ali spiegate sopra la sua gabbia. Allora, quel richiamo così seduttivo era rivolto a lei? Tutti con le mani a schermo seguono il loro volo, finché sono due puntini neri, poi più nulla. Il cielo è azzurro, senza nuvole o segni. Chi resta a terra prova un vuoto, uno smarrimento.
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