Ritorno alla spiaggia
Genova-Quarto, settembre 2003.
Oggi il mare è indeciso.
Viene dalla Libia il vento
o dalla Siria?
Sulla riva
in linee trasversali si trattiene sospeso poi
si abbandona.
*
Qui non arrivano voci
il bàttito marino
impone il suo silenzio.
Ora a mezzogiorno si sta bene
il caldo ipnotico
è strappato da un lieve brivido e chiudo
occhi e taccuino.
*
Dicono che il bambino nuoti felice
nel grembo e rida e pianga
- ma piano -
come velato.
*
Sotto le palpebre
stringo i colori visti la prima volta quando fluttuavo
e la loro luce
tiepida mi raggiungeva da un ombelico
- il sole.
(È lì che si vuole tornare
protetti e smemorati
i pugni stretti
sulle cose perse.)
*
Cerchi gialli intorno a un centro nero
rivelano dentro gli occhi
un’altra mappa.
*
A mezzogiorno Ignazio
dall’alto del suo trespolo
si accende un sigaro lo fuma davanti al sole
a tu per tu
spalanca l’ombrellone
disegna il suo profilo nell’azzurro -
lui che ha 65 anni.
*
Continuerò a scrivere
- è un patto tra sabbia e mare un patto
meridiano -
finché la notte mi strapperà la penna
le mie piccole ebbrezze
e la tempia posata sul braccio della sedia a sdraio.
*
Qui non si affittano barche per fare un giro al largo
nessuno ci va più.
Hanno gozzi, vele, fuoribordo, navi per lunghe crociere.
Mi accontenterei di una remata
su una barca di legno
che odora d’alghe e pittura fresca.
*
La palpebra dei bambini è sottile.
La nostra ha strati di necropoli
induriti dal peso della luce.
*
Guarda, questo è l’Atlantico – mi avevano detto
non ci puoi entrare, neppure avvicinare,
le onde enormi sempre in tempesta.
Appena oltre Lisbona, si spalanca l’America.
Presto tornerò a rivederlo: lui uguale, io...
*
Sull’estremo
indietro non si torna:
si danza
con stile di guscio.
*
Sole a picco
ventre a terra
scheletro in preghiera.
Sento il mio udito scendere dentro i granelli
tranquillo in attesa eppure
comincio io a chiedere
e mi scivola in bocca il sale di una lacrima.
Perché è di sale anche il mare?
Quanto mare c’è dentro di me?
Affondare
vorrebbe il corpo entrato nei sussurri della sabbia.
*
Mi rigiro supina
e la schiena è protetta.
Mimo il futuro
e l’abbandono fiducioso?
Ma non so fino a quando
resisterò così.
*
Cammino sul filo teso della riva e la brezza
mi passa addosso da tutte le direzioni.
Affronto eretta
il deserto mosso del mare: è tutto mio
(oggi avverto il nodo dell’appartenenza).
*
Lentamente in punta di piedi mi immergo
chiudo gli occhi nuoto
puntando a caso un punto all’orizzonte.
L’acqua è tenera lo slancio
presto lo freno alla boa riprendo fiato
girandole intorno.
Con il sole alle spalle torno indietro.
Anche stavolta non ho rischiato il largo:
eppure sono felice
per così poco.
*
Passi sulla sabbia si avvicinano
nel mio orecchio sinistro il mare insiste
nel destro bisbiglia con voci infantili.
Scricchiolano si allontanano
torna la polifonia
si stacca una pagina dal giornale
qualcuno vicino telefona.
*
Sotto le palpebre
linee lampi
e l’ombra delle ciglia:
il giallo il cupo rosso il verde
squillano
dardeggia il cerchio viola
del sole capovolto.
Sono distesa a riva appena nata
o appena prima di una bella morte
su sfondo azzurro.
*
Sotto il sole
evaporo il mio freddo
entrano i colori sottopelle
fiammeggiando nel sonno.
*
Forse questo è l’ultimo capitolo
del viaggio degli anziani abbandonati
alle soglie del deserto o del mare.
*
Sento in me molte voci.
Un brusìo allacciato al vuoto.
Siamo in tanti a pregare e a piangere.
Basta fermare il respiro nell’orecchio.
*
Nell’estasi dell’inerte
nulla mi tocca e fa male
sto qui vicino a me – puro animale.
*
Copro l’orizzonte col palmo della mano
il suo dorso cieco mi protegge.
L’occhio ha molto da studiare
tra i diaframmi può confondersi.
*
Così Aurelio indaga sulla luce
prima delle immagini.
Tra le pieghe dell’ombra
c’è una struttura preesistente – dice -
dello sguardo senza di noi
tessitura fluente
di un mare buio.
*
I sassi bagnati sfavillano
variano forma e colore
spiccano i rossi i verdi pallidi
i neri differenti.
Se l’onda li abbandona
tutti tornano grigi.
*
C’è chi dice che i sassi soffrono:
se tutto soffre può, per rivolta, gioire.
Siamo in tanti a cantare e a piangere.
Ascoltarci è dolce e terribile.
Forse più terribile tacere.
*
Una ventata di voci
strilli chiacchiere rumori umani.
È girato il vento?
Poi un treno dietro di noi – lunghissimo -
tutto si porta via.
*
Un signore in abito bianco
fischia dalla strada.
È papà che ci saluta – dice mia madre.
Ma è già sparito
e lei con lui.
*
La spiaggia sembra ferma
ma si muove: agita
l’iridescente intreccio d’acqua e luce.
Nella rétina vedo e non vedo
sono tra giorno e notte
l’inquieta lente
di una materia ignota.
*
Se nel corpo c’è limite e sconfinamento
arriverà il momento d’incontrarci e sparire
nel fiato
che esita
poco più avanti a noi.
*
Si è
quel capriccio che ci ha afferrato.
Respiriamo una nota
prima e dopo un suono grande.
La partitura è questa:
il cuore nel bàttito ha una regola -
tutto il resto è
impromptu.
*
Queste mattine restituite
le fermerò negli occhi.
Settembre sulla sabbia e su di me
lento avanza verso il suo nulla e il mio
ma ci accarezza prima.
*
Tutte le cose le capisco nel tardo pomeriggio
o sotto lo scirocco che interra l’aria.
Ma in questi giorni lo scirocco non c’è
e neppure verrà – dicono – è più probabile
il folle maestrale dalla Francia
che può cambiare ancora direzione.
*
Al tramonto
la luce scurisce i suoi strati
ma nessuno pensa alla morte
nel fruscìo di un mare domestico:
non c’è dramma neppure alla sera.
*
Taciturne le giocatrici
sulla riva con ventagli di carte
giocano e fumano tutto il giorno
al basso continuo del mare.
*
Lui, intorpidito
dopo la rabbia della libecciata
ha divorato la spiaggia
e noi spalle al muro senza scampo.
Ancora un po’diffidenti
riprendiamo ad andargli incontro
con stuoie e asciugamani.
*
Un’onda alta e lunga
spinta da un’interna corrente
esplode sugli scogli
senza suono.
*
Sono rimasta qui col sole fermo
adeguandomi al passo della terra
spostando poco a poco la sedia a sdraio
da est a ovest.
*
L’Atlantico Lisbona e il Tago
li ho rivisti da lontano.
Se ora sono cambiati non lo so.
La loro aria la respiro adesso.
So di essere eterna come loro.
*
L’ombra è viola ha detto Delacroix
la vedo allungarsi
confondere i miei occhi al mare.
È il rovescio
o dei colori la sfumatura?
o è nata così?
e quanta notte c’è dentro di me?
Quante e diverse le ombre
dall’alba al tramonto?
*
Una bambina mi porge una palla
scappa via.
Resto con quel dono nelle mani.
Oh se così fosse tutto
in questo orizzonte chiaro come la visione
prima e dopo la parola.
*
Versi fatti dal mare
metrica ininterrotta
fluida
stupita
lasciata andare
dal largo a riva
e dalla riva al largo.
*
Anche settembre è finito
e lo stabilimento chiude.
Ma il mare lo lascia aperto
l’Ignazio che ripone le sdraio
e non ascolta nessuno
si è infilato un maglione
guardato l’orologio
spento, tranquillo, il sigaro.
**
Porta Rosa
Velia, settembre 2007
a Vincenzo Guarracino
Sono venuta da morta a riprendermi la luce
sparsa fuori di me mentre ero sottoterra.
Non la depongo prima di tornare al buio
come una veste effimera ma voglio trattenerla
sulla mia pelle vuota per il dio compiacente
che mi ha lasciata andare. Io non attendo
segni dall’alto o dal basso. Mi è bastato
vedermi risalire sulla quadriga elegante
con i cavalli neri dal passo lento una danza
silenziosa ma senza il corteo dei parenti
in lacrime e i carri col mio corredo:
tutto questo è dipinto per chi resta.
La discesa nei muschi della notte
non fu poi così buia sapevamo
che una sorta di fuoco ci attendeva se
- come dicevano - l’oltre sarebbe stato
il rovescio di questo mondo le sue apparenze
tutte capovolte se sfiorate
dalle mani degli dei.
Sono venuta qui trapassando le pareti
della tomba di notte non sapevo
che la voce di noi morti può piegare i muri
farci tornare indietro dove vogliamo.
Ho perduto i cavalli per strada, lasciato
la barca legata a un’onda ferma
camminato scalza sulla spiaggia di Ascèa
udito i galli cantare non so se per condurmi
qui o riportarmi alla tomba, ho visto nascere l’alba
l’impercettibile agitarsi del cielo oh finalmente
anche il cielo è tornato e anche il vento
che agita davanti agli occhi il mio velo nero vi dirò
che questa aurora provvisoria è più bella
dell’altra infera - premio inadatto a noi umani.
Io cerco la mia casa. So che è ad Elea ma dove?
Affondata al centro della terra, schizzo di fango
tra il fango nell’infinito inferno delle cose distrutte;
devo pensarla sotto i miei piedi guardare
il terreno come specchio che mi rimanda
le immagini profonde fino a me fino alla gola
che soffoca mentre il cuore si spacca di nostalgia?
O devo solo guardare il cielo indovinare
figure nelle nuvole alte - e respirare - non desiderare altro?
Adesso in giro non vedo nessuno. Pietre
che furono umane dimore templi abitati
dagli dèi dove i filosofi carpivano nei numeri
i loro segreti radunando mendicanti
di verità e sui gradini il grande Asclepio
curava i mali dei pellegrini facendo miracoli.
L’acqua non c’è più. I pozzi secchi i porti insabbiati.
Pietre e pietre e l’erba fresca tra loro, allegra. Cielo e vento.
La mia casa era ai piedi di una strada in salita
e in cima una porta grande di pietra dove passavano
muli mercanti preghiere armi cavalli guerrieri
donne che salivano in fretta con la schiena curva come
cani, aiutando gli uomini a reggere i carri e di notte
ingannavano le sentinelle per fuggire perdersi dall’altra parte.
Erano serve dagli occhi bassi, sacerdotesse, prostitute.
Forse le attendeva una nave.
In questa luce di mezzogiorno tutte le ombre
si coricano rasoterra e i vivi non vedono nulla.
Non è l’ora di chiedere o rispondere. Supini, si tace.
Io stavo sulla soglia. Le soglie uniscono e separano.
Amavo l’interno delle stanze la loro protettiva
quiete ma amavo la luce la gente le voci.
So che lassù Porta Rosa si tingeva di rosa
per chi saliva all’alba e di rosa al tramonto
per chi tornava da nord. Separava e univa
le ore di luce e buio insieme a noi, i vivi.
Si apriva a sinistra sullo spazio azzurro
illimitato del mare a destra su quello verde dei campi.
Ora che sono qui rifarò quella strada sterrata e poi
varcato il crinale per l’ultima volta sentirò
alle spalle il peso doloroso del paesaggio
con la mia casa morta e qualcosa
come una lama mi squarcerà corpo e spirito.
Sentirò mia madre chiamarmi per nome e sarò
indecisa se restare qui a piangere senza lacrime
o ritornare sola nel regno del buio.
La luce - questa - potrà soccorrermi? Il suo respiro
ha traversato le parole dei saggi. Sento
il suo fuoco leggero bruciare il mio velo nero. Io so
che lei dà giusta sepoltura ai divisi, ai tormentati.
Mi affido per sempre alla sua polvere.
È la porta - ancora intatta - dell’antica città