Lucetta Frisa
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Modellandosi voce (Corpo 10, 1991)

Zoologia dell’ombra

Belva irosa o animale arrendevole
-assopito, insonne, in agguato in fuga
accerchiato dal suo paesaggio
che l’occhio cattura

e scava intorno, spoglia
intrecci di rami e dettagli
erba sassi polvere

e la fa cosa nuda sola compatta accesa
corpo senza infinito
-se più teso è lo sguardo-

Per iniziare a svuotarlo
disabituarlo del tempo
mentre torna lo sfondo
intrusivo, a coprirlo
-l’occhio cede alla luce, invaso dallo spazio-
lui si disfa confuso
entra nell’invisibile

*

Selvaggio vagavi nella foresta:
trapassato dalla mia freccia
eccoti ora in cornice.

Ci scrutiamo dalle gabbie
-spazi astuti misurati-
limpidi nomi domestici sul dizionario.

Inappagati
come entrare l’uno nell’altro
con armi già sopraffatte?

Chiudere gli occhi
non basta più
per farti morire.
Lo sguardo smembrato
un fremito ci percorre e ci allea.

Senza fame, staremo accanto.

*

Acquattato, silenzioso, ti attendo.
Non ci saranno assalti, lusinghe.
Potresti eludermi, sfuggirmi.
Ho spezzato coltello e penna con fatica
lacerato mani e fogli
appresa la veglia dai fuochi d’accampamento.
Eccoti, infine.
Ti guardo e più ti guardo divento leggero
-un occhio nell’aria-
E tu più grande, più grande
-uno scherzo del fuoco?
Invadi, divori
-fiato e corpo-
l’arbitrio del territorio.

…e comincio a narrare
di un’antica furia ferina
che la mia voce esile inganna.
Il tuo fiato selvaggio
Nel mio respiro si placa.

*

Eri furia abbagliante
suono sapiente e nudo –
perché ti chiesi di mostrarti
separando la luce in riflessi?
Nacque l’irrimediabile squarcio
fra me e te,
l’orrore della voce violata e vacua
avvilita in parole
dello sguardo tradito
illuso di catturare il tuo segreto violento.
Dove sei ora?
La domanda cresce la lontananza.
Sconfinano le gabbie dell’oscuro.
L’ombra si aggiunge all’ombra.

Il tuo enigma ora è l’aria
dove si sciolgono i volti come rupi
attraversati da un’obliqua luce
che avvolge, accarezza ogni difformità.
Rostro o felina zampa, artigli e di serpente la coda:
il tuo destino è fatto di nomi divisi
ci interroga dall’incoerenza del visibile.
Nel corpo liberato dallo specchio
altre ombre cominciano ad allungarsi.
Scure domande di stranieri – cacciatori, viandanti -
ti chiedono di ritornare.


Parlare della notte

1.

All’alba
qualcosa bisbiglia nel buio un suono incerto
non appartiene ancora alla mente alla sua aria chiara
diviso dal mistero della notte terrestre
che guarda e ascolta con altri sensi.

Là si sente il pensiero come un corpo
la parola vibra ancora tutta muta,
se il nome va verso la luce
il silenzio e l’occhio non hanno specchio.

Parliamo del sogno e siamo stranieri
insensati per il giorno sonoro
infedeli al silenzio, al suo segreto:
sulla frontiera battuta da luce e buio
ci interroghiamo indecisi cosa essere.

E il giorno ci adesca nella sua terra visibile
che sembra limpida ora, una geometria vuota:
sarà difficile parlare della notte
con queste parole.


Il terzo tempo

La percezione del buio nello studio
mi insegna a non dimenticare
gli oggetti del giorno incolori e orfani
che scintillano assenti nello specchio.

Calma, nella notte, non invento nulla
neppure una parola logica – scrivo
respirando, tocco l’alfabeto infantile
che inavvertitamente si è fatto adulto.

Non ho imparato nulla di ciò che volevo sapere
qualcosa dico ma dimentico o ricordo
fuori di me, senza sforzo.
Il dolore c’è stato prima.

La percezione del buio nell’alta attenzione
ha distrutto lo sfondo, invaso
carne e cervello che provano nuovi sopori.
Le congetture bruciano.

E’ così facile scrivere: lascio alla luce
ogni angoscia, pongo la mano sulla penna
la stringo: mi porta via, cieca.



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