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Lorenzo Pittaluga





http://rebstein.wordpress.com/category/lorenzo-pittaluga/

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LA NUOVA POESIA LIGURE
Quaderni della Società Letteraria Rapallo
1996
CONTRAPPUNTO
Luisella Carretta, 2002
Da “La buona lentezza, poesie 1993-1995”, Campanotto 2000
SONO LA FOCE E LA SORGENTE
Italic Pequod, 2015
Antologia Poetica

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http://www.tellusfolio.it/index.php?prec=/index.php?lev=138&cmd=v&id=1737

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Da Vertigine e misura (La Vita Felice, 2008)

1. Vite interrotte

Nell’estate del 2005, parlando con Stefano Massari e Gabriela Fantato, avevo pensato a una breve antologia di giovani poeti che hanno interrotto la loro vita. Non volevo promuovere un’apologia romantica del suicidio o inventarmi un nuovo marketing della morte volontaria, né mi interessava, pur essendo psichiatra, il valore testimoniale della sofferenza psichica. Mi incuriosiva e mi incuriosisce guardare dove oggi è troppo facile distogliere la vista. In tempi di eccellenti versificazioni tecniche, con i poeti che si autonominano esegeti della loro carriera, attenti alla segnalazione nel prossimo premio locale o alla presenza nella futura antologia dei «migliori», a me piace puntare lo sguardo su qualche minima verità, almeno per il tempo di dire quello che è urgente dire.
Morire, naturalmente, non è meglio di vivere. Ma chi interrompe la sua vita e ha a che fare con la poesia, deve vivere una doppia incandescenza: quella del suo dolore personale e quella della vocazione poetica. La poesia, come la vita, non immunizza e non protegge: espone. Ci consente di usare il linguaggio come una bomba innescata e non come un abito da cerimonia. Questo ci insegnano i poeti disperati e «imperfetti» che si sono tolti la vita, da Beppe Salvia a Nadia Campana, da Giuseppe Piccoli a Remo Pagnanelli, da Vincenzo Reta a Lorenzo Pittaluga. Non si tratta di un cimitero di lapidi spente ma di un semicerchio di fuochi sempre accesi.
È ancora possibile che chi soffre troppo insegni qualcosa a chi soffre poco, e gli suggerisca che l’assenza di dolore non è un’insperata fortuna ma, talvolta, un’assenza di passione vitale. Se questo è un tempo difficile per la poesia, lo è per viltà e miseria morale: la maggioranza dei poeti non custodisce nulla, al di fuori dei prossimi libri da offrire ai recensori. Le lettere di Marina Cvetaeva, gli appunti di Paul Celan, le prose di Amelia Rosselli, non erano l’elenco dei prossimi libri da stampare ma il segno, ardente ed esatto, che a loro, poeti del loro tempo, toccava un compito, che è identico nei secoli: custodire la poesia come cosa urticante, aspra, inattuale. Le vite interrotte dei giovani poeti lo testimoniano ancora, benché sia forte il rimpianto per le loro opere future, rese impossibili dalla morte fisica. Ma questo conta meno. Pur non promuovendosi più sul mercato letterario, questi poeti tengono acceso il fuoco che serve a noi per vivere ancora la poesia come stupore per la parola. Né noi né loro siamo diventati classici da antologia, licheni da museo, argomenti per tesi di laurea. Ma di quella dolorosa energia e di quel tragico destino, che in certi casi può essere chiamato follia, non dobbiamo e non possiamo fare a meno. Questa consapevolezza mi spinge a tratteggiare il destino di Lorenzo Pittaluga, che ha traversato arte e follia con uguale intensità, e con il quale la mia vita di scrittore e di psichiatra si è incrociata per undici anni.


Per Lorenzo Pittaluga (1967-1995)

Lorenzo Pittaluga nasce nel 1967 a Cremeno di S. Olcese, nei dintorni di Genova. La prima plaquette in prosa, del 1987, ha come titolo un verso di Rimbaud, Arcobaleni tesi come redini. È del 1989 la prima plaquette poetica: Marginali annotazioni di un modesto ventriloquo di provincia. La rivista «Arca» pubblica nel 1994 le sue Poesie del primo giorno. Nel 1992 esce Arca di fiume. Nel ’94, Le ore della sete per Campanotto editore. Durante l’ennesimo ricovero psichiatrico, pochi giorni dopo il Natale del 1995, si toglie la vita. Nel 1997 esce postumo, per le edizioni Graphos, L’indulgenza, a cura di Marco Ercolani ed Elio Grasso. Nel 1999 ancora Campanotto pubblica La buona lentezza, su iniziativa del Comune di S. Olcese, con due brevi saggi degli stessi curatori del libro precedente. Alcuni versi di Lorenzo appaiono in due libriccini Pulcinoelefante, a cura di Alberto Casiraghi. Altre poesie postume sulle riviste «Istmi», «Ciminiera»e «Pagine».

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Lorenzo cerca una condizione poetica dove la sospensione del senso e l’incantamento della metafora inventano sequenze seriali di sorprendente evidenza. Lorenzo non accumula immagini disordinate e surreali ma le dispone nella pagina con grande perizia metrica e ritmica, non immune da virtuosismi linguistici, del tutto intuitivi. Il suo discorso, apparentemente ermetico, cerca una comunicazione affannosa, in bilico fra stralunatezza e cantabilità.
Se è vero che la malattia psichica determina spesso una sensibilità particolare, come se non ci fosse più lo schermo della pelle a proteggere dalla percezione esterna del mondo e dall’invasione interna dei fantasmi, di questa sensibilità Lorenzo si fa testimone. Volendo fuggire dall’inevitabile cronicità della sua sofferenza psichica – ricoveri protratti, abusi farmacologici, episodi confusionali –, Pittaluga non lo fa in modo sommesso ma come un tuffo euforico nell’ignoto, pervaso dalla stessa esaltazione con cui raccontava a me, suo psichiatra e suo amico, il delirio di essere santo. Per Lorenzo la vita non è mai solo la vita ma la metafora della vita. E oggi, con la sua esistenza assente, esemplifica una verità assoluta: un poeta non può che pensare l’oltre.
Scrive il poeta: «Io non resisto ai princìpi / senza vera sostanza, / presento un resto,/ un ritardo tra gli uomini». Lui, che non ha avuto il tempo di raggiungere, tra il sé e il non sé, un equilibrio in cui riformulare in termini meno drammatici la sua personale scommessa contro l’ordine mediocre del mondo. Lorenzo si è perduto. Ma forse, oggi, a oltre dieci anni dalla scomparsa, rimane il suo tragico “modo” di dire che la vita è straordinaria e va vissuta anche perdendola.
Con la sua poesia, che ha lampi di tragica grandezza, Pittaluga non ha riscattato nessun dolore biografico, né spiegato nulla. Si è solo “percorso”. Leggeva prosa e poesia in modo febbrile, apparentemente con scarsa concentrazione, ma si imbeveva come una spugna delle parole altrui. Assorbiva parole da ogni stimolo esterno, da ogni sensazione, come se non avesse potuto far altro che questo: immergersi nella materia delle parole, nella sintassi in cui combinava, articolava, disarticolava il linguaggio. Come se, non essendo facile vivere, si potesse sostituire la vita con l’incantesimo di una parola “liberata” dai vincoli del significato.
Lorenzo usava metri e timbri diversi: non era naif, in poesia, né selvaggio né istintivo, ma, al contrario, meticoloso e ossessivo. Non poteva tacere. Doveva esprimersi. Ma non è vissuto abbastanza per mettere in rapporto le sue parole con la sua vita: ha vissuto quelle e questa come due universi non comunicanti che, nell’attimo in cui si fossero compenetrati, sarebbero andati in cortocuircuito.
Oggi, però, non importa a nessuno sapere nessuna “verità” sulla sua avventura terrena. Del suo sforzo di rendere le parole vere e vive Lorenzo ci lascia una scia definita. Ci rivela come abbia potuto, in assenza di una vita normale, scrivere una poesia infelice ma decisiva, posseduta dal sogno di una euforica trascendenza, nutrita dalla complicità con la morte, sì, ma immersa nella vita, con ostinazione, anche quando la vita, per lui, si riduceva a essere soltanto un gruppo di parole. Ma quelle parole - la loro forma, il loro intrico, il loro addensarsi e respingersi - erano il suo modo di rappresentare/nascondere un nodo biografico troppo doloroso che con altre parole – quelle della terapia, forse della guarigione – non avrebbe saputo e potuto sciogliere.
Lorenzo non ha risolto i conflitti psichici della sua vita. Lo testimonia la morte tragica, ma non improvvisa e non imprevista, simile a un urlo. Nella sua plaquette del 1989 scriveva «in un sussurro / impercettibile sussurro / dove le più tenere voci languiscono (cetre?) / al suono - / duro - / nella polvere / precipitato». Di questo precipitare - dal volo magnifico dell’Albatro baudelairiano alla sua goffa marcia sul ponte della nave - Pittaluga ha testimoniato, sentendosi “fantasma vero d’ogni inamovibile realtà”, un essere umano affaticato dal peso dell’esistenza, pervaso dal desiderio di una metamorfosi (di una libertà) che sciogliesse i nodi della sua malattia.


Scritture

Le scritture, le mie, naturalmente
nate postume, celano la forma
del riposo, del denso incantamento.

Versi da gogna nati per non restare,
per morire embrioni innalzati
dal mio ostinato orgoglio.

Leggimi di notte come io scrivo,
fallo pietosamente, con indulgenza,
perché, lo sai, sono nato sfinito.

Diritta non è la mia strada,
confuse le orme. Sulla selce,
calciato, è il mio volto incancrenito.

(L’indulgenza, 1997)


La forma

La forma più complessa
che t’imbianca come neve
perplessa, versa in te
tutti i fonemi più splendidi,
la forma più completa
che bene si sa rimodellare
per avere un canzone propria,
l’atroce storia
del mio quarto di secolo
mentre riaffiorano smussati
e più vaghi i sogni
di stanotte e sempre
a disdegno per le lotte
già perse in partenza
e tu col chiodo speranzoso
che come la radio riaccendo.

(La buona lentezza, 1999)


Congedo

Con le sue parole
che non prendono l’osso del cuore,
parole rarefatte

che non schiudono le labbra altrui
in dolci fonemi. Ma io sono in un mondo
migliore, sono la foce
e la sorgente: sono Lorenzo.

(ivi, 1999)




Puro suono onda che si riflette
nel timpano misericorde di una chitarra
senza plettro eccomi a raccomandarmi
all’ultima corda in controcanto






(Pulcinoelefante, 2000)

Scostàti dal coro

Ora noi non abbiamo che noi – dobbiamo
scontare l’intrico di finitezze e mesti

orgogli: l’infinità non ci cerca:
siamo cantori stonati – senza

più sonore viole – scostati dal coro.

(Pulcinoelefante, 2002)


Impeto

Supplica derive
con impeto sommuove
la parola contingente –
muta verso – si terge
e nutre di viva foglia
il cadavere dell’inverno
che seppellisce – fra lampi
immobili e stagnanti –
un tuono che diventa
vetro, nutrita
sorgente di tanto
rumore che ti dice:
“Lontano...Lontano...Lontano...”
Pronto si rivela
il sogno che si prodiga,
nell’evento, a tornare
fantasma. Fantasma
vero d’ogni inamovibile
realtà.

(1993)


Sono la foce e la sorgente. Antologia poetica 1984-1995

Per Lorenzo la vita non è mai solo la vita ma la metafora della vita. E oggi, con la sua esistenza assente, esemplifica una verità assoluta: un poeta non può che pensare l’oltre. «Io non resisto ai princìpi / senza vera sostanza, / presento un resto,/ un ritardo tra gli uomini». Lorenzo non ha avuto il tempo di raggiungere, tra il sé e il non sé, un equilibrio in cui riformulare in termini meno drammatici la sua personale scommessa contro l’ordine mediocre del mondo, e si è perduto. Ma oggi, a vent’anni dalla scomparsa, rimane, a noi che sopravviviamo (e questa antologia vorrebbe esserne segno), il suo tragico “modo” di dire che la vita è straordinaria e va vissuta anche perdendola.
(M.E.)

Poeta

Cosa attendo? Cosa dardeggio
verso la mia regina? Trovo
carta, esprimo. E la tua musica?
Movimento dell’arto destro
che muove il lapis e presto
cancella il mondo manifesto.
Sono potenza e respiro. Sono
l’unico poeta uscito dalla
placenta della terra desolata.
Unisce al dono questa
corona, svia al semaforo,
urta – presto muore.

Scritture

Le scritture, le mie, naturalmente
nate postume, celano la forma
del riposo, del denso incantamento.
Versi da gogna nati per non restare,
per morire embrioni innalzati
dal mio ostinato orgoglio.
Leggimi di notte come io scrivo,
fallo pietosamente, con indulgenza,
perché, lo sai, sono nato sfinito.
Diritta non è la mia strada,
confuse le orme. Sulla selce,
calciato, è il mio volto incancrenito.

La forma

La forma più complessa
che t’imbianca come neve
perplessa, versa in te
tutti i fonemi più splendidi,
la forma più completa
che bene si sa rimodellare
per avere una canzone propria,
l’atroce storia
del mio quarto di secolo
mentre riaffiorano smussati
e più vaghi i sogni
di stanotte e sempre
a disdegno per le lotte
già perse in partenza
e tu col chiodo speranzoso
che come la radio riaccendo.
(L.P.)

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