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Anima della prosa (2011)
(Da Nottario, 2)
Nello Zibaldone leopardiano la sintassi non ha niente di classico. Il fraseggio si sviluppa per frasi appese, scandite da virgole, archi di frasi con ritorni all’indietro, ripetizioni avvolgenti, un andamento aperto che spesso si perde in un “eccetera”. Leopardi non “mette in prosa” blocchi di pensiero già pronti, insegue idee che si sviluppano con e nel flusso delle parole. Produce una mobilità di scrittura che può espandersi in ogni direzione, inseguendo la sorpresa del dire qualcosa che fino ad allora non si pensava. La linea della prosa non è retta, è erratica e frammentaria, mobile e sospesa. “Pensiero sempre interrogante e incompiuto, privo di protezione”, dice Antonio Prete. Ecco: la mancanza di protezione è il pericolo perfetto di questa prosa. Ogni frammento dissemina parole, per ricordare che il cammino si sta svolgendo all’aperto. La nostra letteratura non possiede un altro esempio del genere, con il fraseggio che scivola a ogni pagina tra diversi punti di un orizzonte non definibile (se escludiamo certe pagine del manieristico NotturnoZibaldone si passa da un tema all’altro, da un punto teoretico all’altro, senza una visione riassunta in una teoria conclusa. Si va avanti per onde di pensiero, aperture, sequenze, richiami musicali. La visione di Leopardi non prescrive limiti, invita all’erranza, allo sperdimento. Non si può leggere lo Zibaldone sperando di ricavarne una teoria; si può solo cercarvi il senso di “un cammino che si sta svolgendo all’aperto”, come dice Antonio Prete, “e tutto intorno ai sentieri si dischiude un paesaggio mutevole, e ci sono lontananze e riflessi che possono attrarre lo sguardo dell’osservatore”. Sono i poli dell’illimitato e del finito, tra cui si situa ogni visione del sensibile non bloccata da astrazioni. La linea della prosa leopardiana si muove seguendo i richiami delle immagini che affiorano, gli stati emotivi del pensiero. Non si può trarne una definizione da incasellare. Ogni citazione dallo Zibaldone corre il rischio dell’inconcludenza, della vaghezza, come un frammento vagante che non appartiene a nessun sistema concluso. Lo scrittore è privo di protezione, mosso da attrazioni, umori, estri, erudizioni, camminamenti-riflessioni da flâneur. La prosa di Walser, la sua flânerie, non ne è forse un’estrema deriva? Quello che conta alla fine sono meno le mete a cui arrivare che il continuo transito attraverso stati emotivi, gioie, dolori, umori che insorgono: l’anima di questa scrittura è un modo di scrivere non ancora catturato dalle “rappresentazioni del reale” o dalle “categorie della mente”. Le frasi pensate, il pensiero confezionato, hanno perso il ricordo di questa mobilità nervosa delle parole, che in Leopardi scaturisce a ogni onda di scrittura. È questo il nucleo della sua “filosofia-non-filosofia”, che pone in primo piano gli stati di sensibilità, le inclinazioni del pensiero, i desideri.
Lo Zibaldone di Leopardi è percorso, affetto dalle parole. Come quando si dice: si è affetti da una malattia così si resta affetti dalle parole; i pensieri diventano onde, desideri della visione, allucinazioni percettive, idiosincrasie verso cui si va incontro. La “ultrafilosofia” leopardiana non avvolge le emozioni con i riflessi psicologici dell’interiorità, ma le intende come effetti dei sensi che sfuggono al volere. Nessun altro pensatore ci richiama con tanta sicurezza a questa germinazione naturale del pensiero. Le condizioni affettive sono la chiave per uscire dalla triste ragionevolezza delle filosofie analitiche, recuperando energie che contrastano la noia e l’uniformità delle società moderne, e il linguaggio della prosa è il vettore fluido e ideale per rappresentarle.
Una poesia della prosa. Il flusso emotivo del diario. Il ritmo della parola come ondulazione. L’indicibile reso dicibile, ma senza l’enfasi astratta della poesia. Con maggior effusione e plasticità, come se lo strumento fosse più duttile e meno assoluto. Non parlo di “prosa poetica” ma di “anima” della prosa, della sua intrinseca musica, che tende talvolta a diventare verso ma senza completare mai la metamorfosi.
«Stridore notturno delle banderuole traendo il vento [...].
Una casa pensile in aria sospesa con funi a una stella [...].
Si mise un paio di occhiali fatti della metà del meridiano co’ due cerchi polari».
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