Marco Ercolani
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Il sogno della curva (2011)

Lettera a un amico sconosciuto scritta da Francesco Borromini, un giorno prima della morte (1648).

Ogni cosa acuminata, amico mio, è un atroce dolore per me. Penna, pennello, scalpello, feriscono. Da bambino sognavo che il sangue mi usciva copioso dalla mano ferita, non urlavo ma vedevo un mondo parallelo, tanto morbido e curvo da liberarmi una volta per tutte dalla tirannia degli angoli acuti, un mondo sinuoso, non felice, amico mio. Non desidero dolcezze da paradisi, ma le corazze, le spade, gli orrori delle battaglie, sono un incubo. Desidero che il mio giaciglio sia un letto sospeso, senza travi, senza punte, e ogni battaglia una falsa battaglia, ogni combattimento un giocoso incrociarsi di spade flessibili e dolci. Il vero architetto lavora senza una prospettiva, solo su forme continue. Per la stessa ragione non ho penetrato mai nessuna donna, per la stessa ragione ho amato giovani uomini, mi è piaciuto sentire il loro miele nella mia bocca, che piacere c’è ad avere un uncino aguzzo che penetra il pelo vellutato e buio di qualche bellissimo corpo femminile, lo capisci, amico mio, quanto siano straordinarie le favolose stalattiti celesti di un luogo sacro, le superfici decorate, le cupole, le volte, le finestre traforate, pietra marmo stucco gesso e tuorlo d’uovo, materie che non impongono nessuna necessità, nessuna prospettiva, sono lì, simultanee, dentro il mio sguardo, non penetrano e non tagliano, eccole, tutte una superficie ondulata, rettangolo cerchio trapezio, gli azzurri che si intrecciano ai grigi, in una sola ipnosi, l’uomo non dovrebbe essere pronto a disporre, combattere, prevedere, ma farsi pervadere da un solo sguardo, lento e alto, che non è mai il suo, perché gli artisti reali sono tutti anonimi, amico mio, da tempo combatto con Bernini non perché lui sia l’avversario da odiare, a me non importa niente delle sue vittorie, io voglio che vinca la magnifica curva delle cose, la felice spirale del mondo, ma così non è e così non sarà mai, le battaglie ammazzano, le spade tagliano, le lame dissanguano, gli angoli precisano, i palazzi violentano, negli angoli di tutte le strade c’è la morte, non quell’albero di arance illuminate dai raggi rosso e oro del tramonto, e domani sarà il giorno della mia, di morte, domani, per mio ordine, il mio servo mi ucciderà, nell’unico modo in cui per me la morte è possibile, un colpo di spada mi trafiggerà in piena luce, davanti alla finestra del mio studio, la lama entrerà acuta nella schiena, questa sarà la fine della mia vita, non mi soffocherà la pietra di nessuna tomba, anche la pietra dura, che da giovane ho modellato con lo scalpello per Michelangelo, nasconde sorprendenti morbidezze, detesta l’equilibrio e la gravità, è docile al tatto, le pietre, come le cose, si chiamano, si rispondono, entrano una nell’altra, come i poligoni, le cupole, le volte di un luogo sacro di qualche immaginario oriente, niente può arrestare ciò che fluisce, tutto si muove, smuove, commuove, sgorga, erompe, mi parla dentro un centimetro quadrato e dentro migliaia di chilometri, all’interno di un’unica estasi, come quando si scrive un libro impossibile ed è difficile precisare il punto della fine, i punti esistono ma sono deboli convenzioni, tutto continua a flettersi, a torcersi, a girare, è come quando si vive in un giardino sospeso, celeste, e d’improvviso qualcuno o qualcosa cade, ramo o corpo, il tonfo turba gli alberi muti, ogni canto si tronca di colpo ed è necessario così, è giusto così, ma che orrore! ti toglie il respiro!, torna dopodomani, se vuoi, ci sarà il mio corpo da seppellire, la spada da togliermi dalla schiena, vorrei che tu avessi questo ultimo, pietoso privilegio, snudare dalla mia carne la lama acuminata, liberarmi con le tue dita delicate dal ferro che mi ha ucciso, ricordo, per l’ultima volta, il senso di sconfinata libertà che ho sempre provato mentre guardavo la chiesa di S. Ivo, la mia chiesa, costruita da me, quel senso di folle, spensierata dolcezza nel vedere tutto quel marmo che si dipana e si libra senza un centro di gravità, senza un angolo, una ferita, senza niente, io vorrei volteggiare lassù, curva dopo curva, io che ho finto di essere un architetto, io, uccello inebriato, le ali spiegate, che non penetra l’aria ma la circuisce, la avvolge, se ne colma, tessendo nell’aria traiettorie aeree, piene di profumi e di voli, prospettive interminabili, volte di architetture impossibili...



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