Marco Ercolani
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Prose buie (2010)

Prigionieri di Dionisio
Perché urlare, battere le mani, parlare a voce alta? Non è l’eco che conta, dentro l’Orecchio di Dionisio, a Siracusa: è l’orecchio del tiranno, là sopra, capace di ascoltare il minimo bisbiglio. Per questo camminiamo nel buio dell’antro, suoi prigionieri; ci comunichiamo progetti di fuga con un cenno del capo, senza farci sentire; tracciamo sui palmi delle mani, come sordomuti, le vie che percorreremo per salvarci. La grotta in cui il re vorrebbe ascoltare le nostre voci è un grande antro pieno di silenzio da cui non verrà fuori nessun suono a smascherare i nostri sogni sotterranei. Sorridiamo appena. Perché urlare o battere le mani o parlare a voce alta? Uscire dall’antro: quello è il nostro solo progetto, racconta ai compagni di prigionia.

Quando scende la notte
Leggere quando scende la notte, mentre non si sa per quanto tempo saranno visibili le parole. I libri diventano allarmanti, imprecisi, oscuri, come certi vasi attici dove sono disegnati corpi neri di tuffatori e che, al mattino, col sorgere del sole, appaiono vuoti e bianchi, come se quei corpi non fossero mai esistiti. Si intravede, imprecisa e sinuosa nella ceramica scura, una crepa. Si continua a leggere il buio.

Il bel colore bianco
Una sete insopportabile. Deve arrivare a casa. Ecco sua moglie e suo figlio, così gli hanno detto. Sono immobili sulla soglia. Se almeno avesse ricordato i loro nomi! Se almeno ricordasse i loro nomi! Sa che sono loro e sorride. Ha visto subito i loro occhi allibiti. Un precipizio da cui fuggire. Fuggire subito. Ora è più calmo. Ora sa come liberarsi di se stesso senza l’orrore di farlo, senza mettere in piedi una scena spaventosa e ridicola. Non tollera il fracasso delle ossa, l’immagine penosa del corpo mutilato. Sangue ovunque, grumi neri, gente inorridita. Tornerà alla terra.
Basterà scivolare nella neve, a notte alta, e sprofondare appena, non per caso ma con intenzione, una vaga intenzione animale. A trentasette anni immergere i piedi nella neve altissima, passo dopo passo, in stati sempre più profondi, finché diventerà impossibile sollevare la gamba destra e allora, gli aghi di ghiaccio sulla fronte, le mani congelate, i piedi assiderati, il torace chiuso, potrò rendere i pensieri più lenti, più vicini al loro centro, quello che rifiuta la presenza del corpo, le strategie della mente, il calore delle emozioni, quello che nega tutto ma non il bianco, non il bel colore bianco che si deposita adesso su di lui e lo rende inesistente, invisibile, fermo. Assoluto, come non poteva esserlo prima. E bere, bere tutta l’acqua contenuta nella neve.

Il falso catalogo
Isidoro di Siviglia, il vescovo medioevale stregato dai segni del mondo e dalla magia delle parole, il vescovo che annotava il mondo medioevale in un catalogo interminabile di parole raccontava di uomini che credono, con miracolosa ingenuità, alla reale cartografia di tutti i punti del mondo; diceva che nessun segno, nessuna parola, può descrivere questo universo incontenibile dal linguaggio perché ogni linguaggio, nel descriverlo, creerebbe un falso catalogo a cui non sarebbe possibile credere perché il mondo, pur non essendo infinito, è troppo vasto per poter essere descritto e classificato, nell’ansia di perderlo; i cataloghi, i sistemi, le nomenclature, le enciclopedie, sono concepibili solo in un sogno limitato e perfetto come quello di Isidoro, vescovo di Siviglia, un sogno esatto, sapiente e impossibile che cancella il casuale pulviscolo in cui tutte le verità fluttuano simultanee e inafferrabili, un sogno buono per un’esistenza da idiota felice, quella del suo fedele discepolo, il quattordicenne Alonso che getta e rigetta lo spago sopra il cortile deserto, mangiucchiando torpido, gli occhi persi nel vuoto, un enorme pezzo di pane, e osservando i segni che le briciole lasciano nella polvere. Isidoro sa bene che tutta la sua sapienza è nata nel momento in cui vide, sul bordo del pozzo, i nodi che, sulla corda, avevano impresso sulla pietra, dopo mille discese e risalite, degli uomini.

Chiamare per nome
Ci sono forme che esistono sempre. Per lui è sufficiente guardare, pochi minuti prima del tramonto, mentre cominciano a scendere le ombre, la grande struttura della cattedrale; vedere i capitelli e le vetrate scivolare lentamente nel buio e continuare a ricordare tutti i dettagli proprio mentre diventano invisibili; poi immaginarli, nel corso della notte, per tutta la durata della notte, nel pieno dell’oscurità. Al risveglio, qualche ora prima dell’alba, qualche ora prima di vedere, ricostruirà la cattedrale a memoria, con i suoi sogni e i suoi ricordi mescolati insieme, nella prima nebbia del mattino, senza aprire gli occhi, chiamandola con il suo nome. Solo così sarà in grado di comprendere una cosa che esiste durante il giorno e che esiste durante la notte.

Nome e cognome
Di notte e di giorno, scrive lettere che non spedisce, che non arriveranno a destinazione e non saranno mai lette. Scrive a persone vive e ignote, a persone con nome e cognome. Nel momento in cui i suoi destinatari vedranno scritto il suo nome e cognome nel mittente della busta, non si sentirà più un fantasma ma un uomo reale, un essere battezzato, una creatura vera. Al contrario, in Ultimo tango a Parigi Marlon Brando e Marie Schneider, mentre si amano, si dicono i loro non-nomi, lui sillabando dei gemiti gutturali, lei improvvisando uno stridìo da uccello. Nel momento in cui si chiameranno con il loro nome vero, smetteranno di amarsi e lei finirà lui con un colpo di pistola. Prima di morire, Marlon guarda Parigi come per comprendere dentro di sé, un attimo prima della fine, tutta quella metropoli di persone senza nome.



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