Marco Ercolani
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Scudo e specchio (La Biblioteca di Rebstein, 2015)

Le pagine degli altri sono vele, la tua è il vento che ci soffia attraverso.

Scrivi perché il bianco della carta ti abbàcini. Ti indichi il vero silenzio.

Entri nell’altro, lo correggi, lo illumini, lo fai tuo, sei un noi. I gesti segreti che ritrovi in vite altrui sono la tua semiologia dell’inferno. Mentre chiudi gli occhi e il sole ti sfiora la pelle, torni vivo fra le altre ombre.

Voci, da sempre, in tutta la stanza. Riconosci la tua?

L’aria entra dove scrivi, perché l’aria è il regno delle parole.

Appena ti arriveranno queste righe, non rispondermi. Chi ti ha scritto è già un altro uomo.

Fino a quando sarai fermo sulla soglia, con frecce che non scaglierai? Fino a quando fisserai il sole?

Cerca di ricordare i suoni del ciclone e osserva i muri che hanno resistito.

Di certi animali simili a uccelli o serpenti, scolpiti in legno su uno dei templi di Kyoto, si dice che liberino la mente dagli incubi.

Dipanando in parole quanto non sarebbe dicibile, la lingua scava interminabilmente se stessa come una termite il legno. Il legno alla fine appare intatto – anche se in realtà è vuoto.

Il segreto, o resta tale o sale alle labbra per essere detto: ma allora la voce lo trattiene e assistiamo all’apparizione della scrittura. La scrittura non giunge dalla materia della parola ma dai racconti delle sue peripezie.

Mettere spasmi nel linguaggio, non disarticolarlo.

La pagina dove inventi parole è un muro dove sbattere le mani, la mente.

Sprofonda nel buio con la tua fiamma. Ogni scrittura contiene il suo grido.

Se ricopri il mondo di parole, non è forse quello il tuo modo di tacere?



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