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FIGURA DI SCHIENA (Luigi Grazioli, 2006)
Luigi Grazioli
Figura di schiena
Appunti
I
Mostrare una persona di schiena è evidenziare l`opacità. Quando ci è mostrato qualcuno di fronte, ci sembra di vedere tutto quanto ci sia da vedere, il resto non ci interessa più, come non interessa a chi di fronte si mostra o ci viene mostrato: l`essenziale ci è già stato dato; la schiena invece vi rimanda nello stesso momento in cui ce lo nega. Vedere una schiena non è, come sempre, vedere il visibile; la schiena è certo visibile, ma solo come opacità che rende invisibile ciò che solo andrebbe visto. La funzione della schiena è di celare (e di chiudere, mentre il volto comunque apre); non è materia che si cela mostrandosi, come l`immagine di una cosa che ne fa arretrare, fino alla scomparsa, la materialità; è materia che si mostra come tale, celando (per celare). Si mostra come materia e basta (anche come sola forma, ma meno per affermarsi che per indicare l`invisibile che cela, e che solo, in genere, viene reso visibile perché solo «merita» di essere visto). Al contrario di ciò che avviene con un volto, anche solo rappresentato (meglio, anzi, perché il suo sguardo allora cambia solo in rapporto alle modificazioni del nostro), non si può tenere a lungo lo sguardo su una schiena o su una nuca; dopo un po` si deve per forza distogliere gli occhi: allora si comincia a vedere ciò che sta accanto, e questo finisce (vero o falso che sia) per diventare il volto invisibile, per farne le veci e rappresentarlo. Oppure no, non diventa questo volto, ma il volto di ciò che è rappresentato, e che la schiena ti indica e esalta. Lo guardi per non vedere la schiena, fissi il tuo sguardo su di esso come sul pieno che il vuoto della schiena ordina attorno a sé, o come quel pieno che è necessario ordinare per supplire al vuoto che la schiena apre minacciando di svuotare tutto.
II
Il debole (il fragile, l`inferiore ecc.) non regge il faccia a faccia, e allora non gli resta che dare le spalle. È un suo diritto, la manifestazione della sua forza nel momento della sua massima debolezza. Si rifiuta. (Si) nega. Non è solo, o tanto, vigliaccheria, quanto una risorsa contro ciò che di fatto, in un modo o nell`altro, lo sovrasta. Ciò che il forte chiama «faccia a faccia» per il debole è un sopruso, una relazione asimmetrica, che quindi egli ha tutto il diritto di rifiutare: non ti darò la soddisfazione di umiliarmi e di vedere la paura sul mio volto (o, umiliazione ancora peggiore, di vedere i miei sforzi di dominare la paura mostrandoti un volto impassibile, dignitoso e/o accusatorio, confermando così il tuo desiderio di essere sullo stesso mio piano e insieme di essermi superiore) mentre eserciti su di me una violenza contro cui non ho difese, sono disarmato (esponendoti per di più ciò che in me è l`essenza dell`inermità, il volto) e alla quale non posso nemmeno opporre un`innocenza che non ho, la cui assenza in me non può tuttavia giustificare il tuo arbitrio, perché nel momento in cui tu lo eserciti, io di fatto divento innocente, anche se continuo a sentire dentro di me una qualche colpa (mentre guardandoti con questa non-innocenza che il mio volto manifesta, in qualche modo sarebbe come se giustificassi la tua violenza, legittimandola e giustificandola: questo almeno sarebbe quello che crederesti tu, quello che vuoi credere per giustificarla e legittimarla).
Chi guarda in questo modo già ordina, cioè non solo emette un ordine ma stabilisce anche il proprio ordine, cioè riconosce secondo i propri criteri, che sono quelli della forza: cancella nel suo stesso vedere, anzi vede per cancellare. Allora, in certi casi, negarsi resta l`ultima risorsa. Fino a tempi migliori, che potrebbero forse non esserci nemmeno se non ci fosse questa negazione preventiva. Anch`io, voltandoti le spalle, ti cancello.
III
Invece di cercare un contatto con chi agisce nel quadro o fuori di esso, osservandolo, come fanno coloro il cui sguardo è visibile, la figura di schiena è tutta presa dal dentro, perché è talmente presa da ciò che sta facendo (ma più che un fare, il suo è un eseguire, il rispondere a un ordine, esterno o interno) o che si svolge, o dimora, sotto il suo sguardo invisibile da finire col dimenticarsi, o col proiettarsi tutta in esso: non istanza giudicante o calcolatrice, ma effetto di meraviglia (o di terrore) suscitato dall`incolmabile differenza prodotta da ciò che si produce davanti a lei (o per suo tramite): non sono la cosa o l`evento ad essere per lei, ma è lei a venir meno perché essi possano venire ad essere, o perché il loro essere (differente) l`ha colta con tale forza che proprio perché potesse manifestarsi in tutto il suo vigore, splendido o tremendo, essa (la f. d. s.) ha dovuto eclissarsi, fosse pure momentaneamente. Quanto le sta attorno non è la scena in cui essa si muove, vive, si afferma o è in qualche modo protagonista, ma è ciò che solo è, vive e si afferma davanti al (o in virtù del) suo stupore che proprio in quanto tale lo rende manifesto agli altri non come natura (o mondo) morta, ma al contrario come ciò che solo è vivente, e fa vivere, – cioè permette che una vita ci sia, anche quella della figura di schiena. Anche chi guarda così, allora, è solo ciò che è, senza pretendere di essere nient`altro, men che meno ciò per cui è quello che gli sta davanti.
IV
Ma, come ho già detto, la figura di schiena non guarda soltanto, impedisce anche di vedere. E non solo ciò che essa copre. Chi sta di fronte si dà a vedere come ciò che è più importante, tanto che poco importa ciò che gli sta dietro; chi è di schiena invece, non solo si cela allo sguardo, ma nasconde ciò che gli sta davanti nello stesso istante in cui ne indica l’importanza. Si è voltato a guardare e nasconde, almeno in parte, ciò che sta guardando. Magari non lo fa apposta, come uno che allo stadio si alza e ti si para davanti proprio quando dall’azione sul campo può nascere il gol che aspetti o temi, ma di fatto ti impedisce di vedere. Quando torna a sedersi il bello è passato e non restano che gli effetti, dai quali eventualmente dedurre ciò che è successo. Allo stadio puoi sempre chiederlo a lui, se la tua innata gentilezza riesce a vincere l’impulso di calargli un pugno sulla scatola vuota del suo cranio o di segnalargli insospettate genealogie; nel quadro invece la figura di schiena preclude la vista per sempre: è il segno della tua cecità, ti indica che quello che più ti preme di vedere non lo vedrai mai, destinandoti al ritardo, alla non contemporaneità. Se la interpelli non risponde, e allora non ti resta che lanciarti in congetture su congetture, che però, essendo l’azione bloccata e mancandoti le inferenze deducibili dal suo seguito o dai suoi effetti, non sono verificabili, anche se non per questo sono arbitrarie, perché irraggiano non da ciò che vorresti vedere e che non vedi, ma da ciò che tu vorresti vedere pur non vedendolo, e che quindi in qualche modo già vedi. E forse solo così puoi vedere ciò che non potresti mai e tuttavia vorresti sempre vedere: l’invisibile. La figura di schiena allora, oltre che della cecità, è anche il segno dell’invisibile, l’indice della sua presenza, che se ti è preclusa in quanto tale, almeno ti viene da lei indirettamente manifestata, e anzi, volendo esagerare, certificata: esso è appunto ciò che lei sta guardando.
V
Mentre lo sguardo rivolto allo spettatore non solo lo interpella ma lo definisce, assegnandogli un luogo e una funzione nella scena, e talvolta, come per esempio in certi fiamminghi, indicando lo stesso luogo e la stessa funzione del pittore, con cui verrebbe quindi ad identificarsi, attratto e catturato da quanto si dispiega davanti al suo sguardo, egli stesso attore della scena che contempla, ma immobilizzato in un punto che non può più lasciare vacante, legato ad esso come un prigioniero, la figura di schiena lo attrae negandolo. Tu non c`entri, gli dice, e così lo cattura per sempre. Ma, catturandolo, lo costringe a vagare, invece che dentro, sempre fuori e attorno: lo rende instabile, ma mobile, a lasciare sempre vacante il posto che credeva di occupare, ma solo così attivo. Lo sposta per farlo tornare a se stesso, a ridefinire in continuazione ciò che accade senza di lui e se stesso in rapporto a ciò che può benissimo stare senza alcun rapporto con lui. Non sei più tu a definire e ordinare ciò che vedi: è ciò che è senza che tu lo veda, a rigore l`invisibile, a stabilire la tua possibilità di vedere qualcosa e quella di vederti vedere.
VI
Su molte figure di schiena si sperimenta come un`impossibilità di fissare lo sguardo. Cosa guardare infatti, specie quando la figura non è caratterizzata dal benché minimo gesto né assolve ad alcuna funzione né è asservita all`esibizione anatomica o erotica? Lo sguardo è costretto a muoversi, cerca qualcosa di rilevante o di significativo che non c`è, e allora si sente a disagio, come delegittimato. Sperimenta la propria impotenza. C`è qualcosa, una figura di schiena, ma questo qualcosa, invece di dire alcunché, lo nega, presenta solo la sua opacità e genericità, la sua genericità opaca e la sua opacità generica. Forse che suggerisce, o almeno allude o indica? Non sembrerebbe, dal momento che nulla indirizza o instrada, cioè mette su una strada piuttosto che su un`altra, piega verso una direzione piuttosto che verso un`altra, né tantomeno porta il cartellino di riconoscimento o dell`indirizzo, una didascalia chiarificatrice.
Centrato sulla schiena o sulla nuca, lo sguardo scivola inesorabilmente verso il contorno e poi verso il fuori, nel quale cerca quegli appigli, stimoli o suggerimenti che la figura gli rifiuta, per poter tornare su di essa più armato, più sicuro, ma senza trovarli. Fa allora un nuovo tentativo, che ben presto si rivela più frustrante del primo, così che infine l`abbandona, suggellando in tal modo la propria sconfitta.
Se invece riesce a vincere il panico e la conseguente coazione alla fuga, se riesce a spostarsi, diventando uno sguardo obliquo, laterale, che guarda qualcosa per non vedere questo resto imbarazzante, e quindi si condanna a guardare sempre qualcosa d`altro, allora non gli resta che tentare di riconoscere e descrivere. Disertata l`indagine, diventa assertivo, può solo concedersi l`affermazione: è questo, è quello, e fermarsi lì. Ovvero procedere nella scomposizione di dettaglio in dettaglio con sempre maggior precisione e minuzia: ritaglia, fa a pezzi, sminuzza, tritura, polverizza, dissolve. Per cogliere, distrugge. Analisi infinita, insensata quanto al proprio oggetto, che cancella, e inutile quanto al proprio scopo, il dotarsi di elementi in vista di una sintesi, che dimentica o di cui rinnova lo scacco. Perché la sintesi ogni volta tentata torna a rivelarsi l`opacità da cui l`analisi si era mossa, vi cozza contro e la riscopre ogni volta ancora più opaca. Non ne sai niente di più.
(E allora rasségnati - magari è la tua salvezza. O magari no. E allora fa` qualcosa, incazzati. Ma non serve a niente: devi comunque lasciar perdere. Perderti.)
VII
Mi fa talvolta pensare, la figura di schiena, al morto; non allo spettro, o al doppio o all`anima o a qualsiasi altra rappresentazione di ciò che del morto sopravvive, per lui o per gli altri, e nemmeno al cadavere, alla spoglia o ai resti mortali, ma proprio al morto in quanto morto, e basta: uomo senza volto, e quindi senza individualità, e quindi non più uomo; corpo mortale morto, e in quanto tale assimilabile a tutti gli altri. Per negare questa assimilazione, per tentare di difenderne colui che ci è caro, personalmente o socialmente, ecco la maschera, il ritratto funerario, la fotografia nell`album di famiglia, nel portafoglio e sulla tomba. Nome e date non bastano, è indispensabile l`effigie (per certe culture): di qui la proliferazione delle immagini, la democratizzazione della sopravvivenza mediante l`effigie che la fotografia ha finalmente permesso. Non più solo re, papi, condottieri, magnati e uomini per qualche verso significativi, mostri e capolavori della specie e del branco: tutti hanno diritto a essere ricordati; e l`immagine è, del ricordo, la miccia più sicura. Se non che la memorabilità di ogni morto tende a trasformarsi in oblio in toto della morte. Se ogni morto permane visibile (e dunque se tutto può essere e permanere visibile, e lo è, dal momento che persino tutti i morti lo sono), allora è l`invisibile a scomparire, a diventare invisibile persino nella sua stessa possibilità e pensabilità. Tutto è visibile. È tutto chiaro. Meglio così [...].
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