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Turno di guardia (Il Canneto editore, 2011)

Corsia notturna
Durante il giorno mi riferiscono deliri malinconici o magiche visioni del mondo. Mi raccontano crimini inesistenti, ingiustizie spietate, desideri favolosi. Parlano, delirano. Ma, a notte alta, quando dormono nella corsia, vorrei spiarli con una piccola pila, attento a non fare il minimo rumore, vorrei capire se la sofferenza di poche ore prima ha lasciato una cicatrice reale nella loro pelle. Non è così. Volti deformati da accessi di collera e pianti clamorosi riposano come se nulla fosse accaduto, smemorati, immersi in un silenzio collettivo. Ma quella pace non mi appaga. I folli, svegli o dormienti, non sono mai simboli. Torno nella mia stanza di guardia, mi addormento. Comincio a scrivere di loro.
Mi chiedo se sono spettatore delle loro voci o di tutore delle loro furie. Se sono un veggente passivo o un poliziotto attivo. Chi è veggente spalanca porte, intravede misteri, aggiunge disordini. Chi è poliziotto tappa bocche, trattiene corpi, intima ordine. Ma non si è mai una cosa soltanto. Si è sempre altro da sé. C’è un’isola borderline tra l’essere troppo liberi o troppo prigionieri, una zona della mente dove avere visioni non significa necessariamente perdere la ragione, un luogo dove, nell’attimo in cui tutto crolla, si sostituiscono a quella distruzione dei paesaggi immaginati ma reali.


Oscillare senza cadere
Quando ascolto un «matto» delirare, ogni sistema logico diventa instabile, come se io e lui fossimo su una passerella oscillante. Ma, nell’attimo stesso in cui io e lui ci mettiamo a parlare tutto ritorna stabile e c’è una via di scampo. Io vacillo e lui sprofonda. Ma, vedendomi vacillare con lui, sprofonda di meno. È felice che io barcolli, che io sia simile a lui. Sa che io, come psichiatra, non sprofonderò. Sa che, come matto, lui potrebbe farlo. Ma sente che, se ha una possibilità di salvarsi, deve imitare la mia strategia. Oscillare senza cadere.
Ascolto il suo destino. Ha voluto sciogliersi dalla forma che lo imprigionava e ha fallito. Mi carico di quel fallimento per osservare nodi che appartengono a me e a lui. Conquisto una distanza che è già reciproca via di salvezza e di avvicinamento al mondo parallelo che, da quei nodi, potrebbe inventare universi.
Se il mio compito, come lettore e interprete della malattia, è decifrarla e trasformarla in qualcosa di altro dal sintomo, il mio compito come scrittore è lavorare su una scrittura che renda impossibile e altro il linguaggio. Chi, come lo psicotico, non ha niente da perdere perché crede di possedere tutto, ha come suo doppio l’artista che non ha niente da perdere perché non ha e non vuole avere nulla.


Racconti di fate
Durante il mio turno di guardia sento sillabe ripetute, urla stereotipate, cantilene. Niente di drammatico, di poetico. Chi soffre non ha nessuna voglia di rappresentare la sua sofferenza. Se ne libera o con una nenia o con un grido.
Conosco un ex ingegnere nucleare che, nelle fasi deliranti, si crede un Agente dei Servizi Segreti. È un uomo intelligente, consapevole della sua malattia. In un recente colloquio mi dice di aver scritto dei racconti, mi invita ad entrare nel suo sito web. Lo faccio, incuriosito, sperando di trovarvi qualche suggestiva allucinazione. Invece leggo raccontini che parlano di bambini, fiori, animali, regali natalizi. Cosucce graziose. Per un attimo sorrido, provando un senso di pena, ma poi me ne vergogno. Un uomo come lui, ossessivamente cosciente della sua sofferenza psichica, non ha nessuna voglia di riviverla nei suoi racconti. Nel tentativo di respingerla ai margini dell’io, simula lo stato di grazia di un paradiso infantile. Insignificante, per chi frequenta le forme della letteratura, ma essenziale, per chi percepisce la scrittura come evento.
Così, per disinnescare le loro follie, Robert Walser scriveva racconti ossequiosi e gentili e Friedrich Hölderlin firmava con il nome di Scardanelli tranquille quartine paesistiche. Solo chi non sta troppo male può ancora parlare del suo inferno. Chi è sprofondato nei sintomi fino al collo, ha bisogno di sollievi semplici – musichette, isole dei famosi, racconti di fate. Ricordiamo che Proust non sdegnava le canzoni mediocri, suscettibili di scatenare imprevedibili madeleines.

Mulini a vento
Un giorno cercai di persuadere un uomo di trentasei anni, in preda a un delirio megalomanico in cui credeva di essere Gesù, Budda o Gandhi, a raccontarmi ciò che provava, a scriverne su un taccuino. Lui mi guardò con sospetto, poi disse: Io non scrivo, io sono. Aveva già tracciato, per i giorni a venire, il suo programma: dimostrare di avere ragione contro chi gliela negava, e pagare il prezzo di questa lotta. Il segno più evidente della psicosi è che ogni parola pronunciata non appartiene alla sfera del linguaggio, e tantomeno all’universo della metafora, ma è verità rivelata. Chi si sente messaggero di questa verità guarderà con sospetto sia i funzionari di potere - poliziotti e psichiatri - che lo invitano a tradirsi, sia i compagni di follia che enunciano verità diverse dalla sua. L’uomo di cui parlo ha sofferto per mesi di un’infezione alla gamba sinistra che solo per caso non si è trasformata in cancrena. Per mesi, pur zoppicando, ha negato la realtà di quella ferita. Non lo considerava un problema. Lo avrebbe risolto quando avesse voluto. Poi il dolore è cresciuto; lo ha spinto, suo malgrado, a farsi curare.
Il «matto» intraprende sempre una lotta ostinata contro le convenzioni della sofferenza, del pensiero, della percezione: una lotta grandiosa, destinata al fallimento. L’esagerazione, maniacale e donchisciottesca, è comune, in campi diversi ma contigui, anche all’arte. Se non si esagera lottando con i mulini a vento contro una uniforme pianura noiosa, se non si vive fino in fondo quell’«energia dislocante della poesia» di cui parla René Char, accettare le regole della vita e del linguaggio è solo un debole atto di sottomissione a codici già scritti, una sconfitta umiliante. La speranza nasce quando - parzialmente sani - cerchiamo di sfruttare, tra affanno e pazienza, l’energia vorticosa dei mulini.



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